La Francia è ancora sotto shock. La condanna di Marine Le Pen per aver pagato alcuni politici e dipendenti del suo partito, il Rassemblement national (Rn), usando fondi del parlamento europeo ha sconvolto la vita politica francese. Come ha prontamente sottolineato Le Pen, i sondaggi la davano in vantaggio in vista delle prossime elezioni presidenziali, che si terranno nel 2027. Una prospettiva che la sentenza, impedendole di candidarsi per i prossimi cinque anni, ha quasi spazzato via. Il suo collega di partito Jordan Bardella ha parlato di “esecuzione della democrazia francese” e l’Rn ha invocato proteste contro la “dittatura giudiziaria”. Rivolgendosi a poche migliaia di sostenitori, il 6 aprile Le Pen ha denunciato i giudici che “calpestano la legge”.

Lo sdegno del Rassemblement national è ipocrita. A lungo i suoi politici hanno sfruttato gli scandali negli altri partiti insistendo che solo l’Rn aveva le “mani pulite” e sostenendo che i potenti devono essere giudicati sempre senza paura né favoritismi. In questo caso la caduta di Le Pen è conseguenza delle sue azioni. I giudici volevano punire in modo esemplare la cattiva condotta dei politici e la sentenza è giustificata da riforme recenti che impongono l’obbligo di esclusione dalle cariche pubbliche per i colpevoli di abuso d’ufficio, una misura invocata dalla stessa Le Pen all’inizio della sua carriera politica. Ora si è rivelata un boomerang. Non ha davvero niente di cui lamentarsi.

I sostenitori di Marine Le Pen diranno che la sentenza di condanna è un tentativo d’imbavagliare la loro leader

Questa però è una storia più grande della vicenda di Le Pen. Negli ultimi dieci anni i ribelli di destra si sono scagliati contro le élite politiche corrotte: i trumpiani chiedono di “prosciugare la palude”; l’estrema destra francese ha condannato la “casta politica” . Ma quando sono queste stesse forze politiche a finire sotto lo scrutinio dei giudici, la cosa gli scivola addosso.

Anche le sentenze più dure non hanno avuto alcun effetto sul sostegno ai partiti o ai leader di estrema destra. Anzi, sembra li abbiano rafforzati. Guardate il presidente statunitense Donald Trump, condannato per vari reati l’estate scorsa ed eletto presidente a novembre.

Il fatto che una sentenza divida l’opinione pubblica non è certo una novità. Tuttavia, la crisi della democrazia occidentale è legata anche al fatto che gli elettori pensano di non avere nessun controllo su decisioni come questa. A prescindere dal merito dei singoli casi, quando i tribunali impediscono ai politici di candidarsi è più probabile che alimentino questo sentimento invece di attenuarlo. Chi commette un reato dovrebbe essere chiamato a rispondere a prescindere dalla popolarità politica. Ormai, però, dovremmo aver capito che le decisioni dei giudici non fermeranno i Trump del mondo.

Di certo gli ammiratori di Le Pen distorceranno la sentenza, raccontando che è un trucco per imbavagliarla. Diranno, come ha fatto Trump su Truth social commentando la vicenda, che è una “caccia alle streghe” e un esempio di “guerra giudiziaria”. Le cose, però, non sono andate così. Negli ultimi anni sentenze simili hanno colpito politici di vari orientamenti, anche per reati finanziari meno gravi. Eppure, a prescindere dai dati di fatto, l’effetto è stato trasformare Le Pen in una martire invece di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sui crimini del Rassemblement national.

Non c’è più una fiducia collettiva nella democrazia. La nostra era postmoderna ha indebolito le grandi visioni politiche

Un processo simile è in corso in Romania. Dopo che lo scorso autunno il candidato ultranazionalista di estrema destra Călin Georgescu è arrivato in testa al primo turno delle presidenziali, i risultati sono stati annullati a causa di presunte violazioni nel finanziamento della campagna elettorale e nella promozione della sua candidatura su TikTok. A marzo la corte costituzionale ha vietato a Georgescu di ricandidarsi.

Elon Musk, parlando per conto di un’arrabbiatissima destra globale, ha definito il presidente della corte costituzionale romena “un tiranno, non un giudice”. Alla fine il divieto è stato un colpo inferto al candidato, non alla causa. Al suo posto un altro trumpista, George Simion, è ora in testa ai sondaggi per le elezioni di maggio.

La Germania è alle prese con una situazione simile. Alcune persone, tra cui più di un centinaio di parlamentari, sostengono che il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd) andrebbe messo al bando perché ospita al suo interno dei neonazisti. Visto però che il partito ha già conquistato più del 20 per cento dei consensi e cresce nei sondaggi, dichiararlo fuorilegge sembra impossibile. Per di più l’Afd ha preso delle contromisure per evitare problemi con la giustizia. Di recente il partito ha sciolto la sua sezione giovanile per evitare che fosse messa al bando e quando, nel 2020, la sua corrente più estremista è finita sotto inchiesta, l’ha formalmente sciolta.

Oggi perfino le democrazie con lunghe tradizioni parlamentari sembrano vulnerabili. In parte per l’ascesa di partiti con sottocorrenti fasciste. Ma anche per lo svuotamento della partecipazione democratica e della fiducia nella politica. Le democrazie post-belliche che hanno affrontato sfide come la guerra fredda, la decolonizzazione e a volte il terrorismo politico diffuso erano attraversate da conflitti spesso violenti. Avevano però anche i partiti di massa, pietre miliari di un sistema che faceva affidamento non solo sulla legge o sulle elezioni regolari, ma anche sul progresso economico, il senso di un futuro migliore e la competizione democratica.

Da tempo questa fiducia collettiva nella democrazia è svanita. La nostra era, successiva alla guerra fredda e postmoderna, ha indebolito la competizione tra grandi prospettive politiche e progetti economici rivali. Ha prodotto inoltre nell’opinione pubblica una maggiore tendenza a dividersi e una diffidenza verso le istituzioni o perfino verso la stessa verità. In questo contesto assistiamo all’ascesa di un cinismo antipolitico che favorisce l’estrema destra. È un atteggiamento che condanna il sistema politico perché intrinsecamente corrotto, ma può perdonare chi critica quel sistema per le sue trasgressioni, almeno finché promette di abbattere le cose che non piacciono a questi elettori.

È interessante osservare che l’espressione “mani pulite” non è solo uno slogan francese. Quando ­Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, cominciò a usarla nel 1993, le prese in prestito da un processo per corruzione in corso in Italia che fece esplodere il sistema politico del paese alla fine della Guerra fredda. Per due anni i notiziari mandarono in onda scene incredibili, in cui magistrati come Antonio Di Pietro torchiavano i principali leader politici italiani colti con le mani nel sacco. Nel 1994 i maggiori partiti di governo del dopoguerra sparirono. Se il sistema politico italiano era già pericolante, i processi lo avevano ridotto in macerie.

Il risultato? Di Pietro in seguito ha ammesso che i processi crearono un vuoto politico che ha fatto ben poco per migliorare le condizioni dei cittadini comuni. Paradossalmente, il primo vincitore della crociata contro la corruzione fu Silvio Berlusconi, il proprietario di giornali e tv simile a Donald Trump che entrò in politica nel 1994 per difendere il suo impero economico e per sfruttare il crollo dei vecchi partiti. La sua carriera politica è stata una lunga serie di drammi legali e i suoi oppositori hanno a lungo sperato che prima o poi una sentenza lo avrebbe tolto di mezzo. Invece, mentre il centrosinistra era ossessionato dai procedimenti giudiziari, la sua base elettorale, formata principalmente dalla classe lavoratrice, si allontanava e gli elettori di Berlusconi andavano a votare per chiedere meno tasse e meno immigrazione.

In un certo senso i tribunali hanno tolto di mezzo Berlusconi: nel 2013 fu escluso, sia pure per poco tempo, dalla possibilità di candidarsi a una carica pubblica. Questa sentenza gli impedì di rimanere il perno della destra italiana. Il problema è che i suoi alleati ancora più a destra hanno conquistato ruoli di primo piano, prima Matteo Salvini e ora Giorgia Meloni. I tribunali hanno eliminato Berlusconi, non il suo sistema di potere.

Oggi in Francia sta succedendo qualcosa di simile. La sentenza contro Marine Le Pen magari riuscirà a far deragliare la sua candidatura alla presidenza. Ma non è detto che danneggi il suo partito. Anzi, potrebbe avvicinarlo ancora di più al potere. ◆ gim

Questo articolo è uscito sul New York Times.

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Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati