Potrei dire di averli visti crescere se non fosse vero il contrario: ho cominciato a scrivere di musica sulle pagine di IndieForBunnies ancor prima di pubblicare romanzi. Era il 2008 e qualche anno dopo da quel sito sarebbe nato uno dei più riconoscibili format dal vivo in circolazione: Unplugged in Monti. Ne parlo con il direttore artistico Alessio Pomponi (che l’ha fondato insieme a Emanuele Minuz) alla vigilia di una doppia data dei Magnetic Fields in Italia pensata per tutti i loseristi romantici. C’è la crisi dei grandi eventi ovunque, ma Unplugged va avanti e cresce: “Aver impostato e mantenuto l’attenzione sulla direzione artistica e sull’esperienza degli spettatori, che non vengono solo per dire di esserci stati, ha permesso di costruire una comunità che si è allargata ed è durata per quattordici stagioni. Per chi fa concerti piccoli e medi è fondamentale il luogo del concerto”. La scelta degli artisti – con una preferenza per l’indie-rock anglofono anche se negli anni c’è stato spazio per progetti nostrani come Any Other e per Daniel Blumberg fresco di Oscar per The brutalist – riflette una passione, chiamiamola pure “tigna”, per una scena che non è solo da soffitta. “Sono scelte legate ad ascolti attuali in realtà. È facile arrivare a Bill Callahan partendo dai Big Thief, dai Magnetic Fields e da Alex G, e lo stesso discorso si potrebbe fare per Mercury Rev, Greg Dulli o Christopher Owens”. Oltre alla cura estrema della grafica (di Luca Morello) e dell’organizzazione (Emanuele Chiti), se il format funziona è proprio perché resiste al puro fare cassa con la filologia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati