ABrasília, nell’ufficio di un uomo che conosce bene il potere delle immagini, una foto rivelatrice troneggia su uno scaffale, tra libri di storia logori e un augurio di compleanno di papa Francesco. Nell’immagine si vede il generale vietnamita Giap, simbolo della lotta contro il colonialismo. Per Celso Amorim quella foto è un modo di rivendicare il suo legame con il sud del mondo che sfida l’egemonia del nord. “Ai miei occhi il nostro non è mai stato un paese occidentale”, dichiara il diplomatico più esperto, più influente e più famoso del Brasile, che mi riceve in una giornata di settembre. Da tre decenni quest’uomo di 83 anni, con la barba e i capelli grigi, il sorriso malizioso e un vestito chiaro, plasma la politica estera brasiliana come consigliere inseparabile del presidente Luiz Inácio Lula da Silva.

La carriera di Amorim è cominciata all’inizio degli anni sessanta, in piena crisi dei missili a Cuba. Da allora è stato ambasciatore presso le Nazioni Unite e il Regno Unito. Oggi ha il record di longevità alla guida dell’Itamaraty, il ministero degli esteri brasiliano: quasi dieci anni, prima sotto il governo del centrista Itamar Franco (1992-1995) e poi nei primi due mandati di Lula (2003-2011).

Attualmente Amorim è primo consulente del consiglio speciale del presidente della repubblica, un titolo vago che però non nasconde la sostanza: a pilotare la diplomazia brasiliana è lui, non il ministro degli esteri Mauro Vieira. Nel novembre 2024, a testimonianza del suo status unico, il presidente francese Emmanuel Macron l’ha ricevuto all’Eliseo. Amorim è l’uomo del presidente, quello a cui sono affidati i casi e le missioni più difficili: Ucraina, Gaza, Stati Uniti, Venezuela.

Amorim e Lula, il diplomatico e il sindacalista, sono due negoziatori nati, e appartengono alla stessa generazione. In un ufficio lontano una decina di passi da quello del presidente, all’interno del palazzo del Planalto di Brasília, Celso è uno dei pochi a potersi permettere di dire no a Lula. “Non voglio vantarmi, ma conosco bene la sua dialettica”, spiega. “Non rinuncio alla mia libertà di parola. Solo così posso essergli utile”.

Il duo ha orchestrato la rinascita degli anni duemila e ha regalato al Brasile un ruolo di primo piano nel panorama internazionale, con la creazione del gruppo Brics (che oggi comprende nove paesi), lo sviluppo del G20, l’integrazione latino­americana, il comando della missione di stabilizzazione ad Haiti e l’organizzazione dei mondiali di calcio e delle Olimpiadi. Proclamato nel 2009 “miglior ministro degli esteri del mondo” dalla rivista Foreign Policy, Amorim rappresenta un ponte tra il nord e il sud, portatore del sogno di una globalizzazione pacifica.

Eppure nessuno si sarebbe aspettato da lui una parabola simile. “Sono un plebeo!”, dice con orgoglio. Nato nel 1942 lungo la costa di São Paulo, Amorim è cresciuto a Rio de Janeiro insieme agli altri cinque membri della sua famiglia in un monolocale senza bagno all’interno di una pensione decrepita di Ipanema. La madre, impiegata di una compagnia di assicurazioni, ha fatto sforzi enormi per permettergli di studiare in un collegio privato. Celso, allievo brillante e lettore vorace, già da ragazzo era sicuro delle sue idee. “Qui Platone si sbaglia”, aveva scritto a margine di un’edizione della Repubblica.

La scuola del cinema

Amorim ha trascorso l’adolescenza in strada, giocando a pallone con i bambini a Copacabana. Nell’epoca del trionfo del Cinema novo si appassionò alla settima arte. Come assistente di ripresa sul set del film Os cafajestes (1962) di Ruy Guerra, ebbe l’onore di passare un asciugamano a Norma Bengell, protagonista del primo nudo frontale filmato in Brasile. Sul set ha affinato il senso della regia che sarebbe diventato un tratto caratteristico della sua diplomazia. “L’esperienza del cinema è quella che ha avuto più peso nella mia formazione”, ammette.

Entrato con il miglior punteggio all’istituto Rio Branco, la scuola di formazione degli “itamaratisti”, da giovane simpatizzava per il presidente di sinistra João Goulart e il suo ministro degli esteri San Tiago Dantas, un uomo baffuto, calvo e austero che teorizzava la “politica estera indipendente”, l’emancipazione dai blocchi della guerra fredda, la solidarietà tra i paesi del terzo mondo e l’integrazione latinoamericana. “Dantas è ancora la mia principale fonte d’ispirazione”, riconosce il diplomatico.

Biografia

1942 Nasce a São Paulo, in Brasile.
1967 Consegue un master in relazioni internazionali a Vienna.
1987 È nominato segretario per gli affari internazionali del ministero della scienza e della tecnologia del Brasile.
2003 Diventa ministro degli esteri nei primi due mandati di Lula.
2023 Torna al governo dopo la vittoria di Lula contro Bolsonaro alle presidenziali.


Il 31 marzo 1964 il golpe dei generali vicini a Washington stroncò l’emancipazione del gigante latinoamericano. Disilluso, Amorim proseguì i suoi studi a Vienna e a Londra. A metà degli anni settanta, quando il regime brasiliano ha allentato la morsa della repressione allontanandosi dall’orbita statunitense, Amorim è rientrato in patria, dirigendo dal 1979 al 1982 l’Embrafilme, l’organismo incaricato della distribuzione del cinema brasiliano. Dopo il ritorno della democrazia, nel 1985, ha ricoperto con entusiasmo l’incarico di negoziatore capo del Brasile per le fasi finali della trattativa sull’Accordo generale sui dazi doganali e il commercio, che ha portato alla creazione dell’organizzazione mondiale del commercio (Omc). I risultati ottenuti lo catapultarono verso il ruolo di ministro degli esteri nel 1993.

Il suo successo più significativo risale però al 2001, quando ha combattuto e ottenuto all’interno dell’Omc di rendere liberi da brevetti i farmaci generici per l’hiv. Davanti allo stallo della trattativa, all’epoca era stata proposta una riunione a porte chiuse tra Amorim e il rappresentante statunitense. Celso aveva risposto con indignazione – “non andrò senza un africano!” – prima che il delegato del Camerun lo tranquillizzasse: “Se ci siete voi, saremo tutti rappresentati”. Quel giorno il Brasile è diventato portavoce del sud del mondo.

Il diplomatico ha sofferto molto durante il mandato del presidente di estrema destra Jair Bolsonaro dal 2019 al 2023. Tornato al vertice dell’amministrazione nel 2023, oggi deve affrontare un mondo tormentato dal secondo mandato di Donald Trump, dalla guerra in Ucraina, dalla tragedia di Gaza e dalla febbre populista in Europa e America Latina. “Viviamo un’epoca nebulosa, più che durante la guerra fredda, quando almeno le regole del gioco erano chiare”, spiega.

In questo contesto, la coppia che forma con Lula ha preso posizioni più radicali. Oggi i brasiliani considerano l’Ucraina responsabile tanto quanto la Russia per la guerra in corso, paragonano l’offensiva a Gaza all’Olocausto e attaccano il “neocolonialismo” europeo e statunitense. Questo approccio è stato orchestrato dal “consulente speciale”, che stando ai giornali russi di recente è stato insignito da Vladimir Putin dell’ordine dell’Amicizia ed era presente il 3 settembre a Pechino in occasione della sfilata per gli 80 anni della vittoria contro l’aggressione giapponese. “È stata una celebrazione della lotta contro il fascismo”, si giustifica lui.

Come altri leader del sud, quest’uomo che ha assorbito la cultura europea non ha più un debole per l’occidente. “L’Europa ha smesso di essere un faro”, afferma denunciando il “grande errore” dell’espansione della Nato e la “cultura militarista”.

Per qualcuno oggi Amorim è una delusione. “Non riesce ad aggiornare il suo software geopolitico”, si rammarica un ambasciatore europeo a Brasília.

Forse il grande rimpianto del principe dei diplomatici resterà la scarsa coesione del suo continente, diviso tra il populismo ultraliberista di Javier Milei in Argentina e la dittatura di Nicolás Maduro in Venezuela. “Questo passo indietro è frustrante, anche se penso che insieme potremmo formare un continente omogeneo che comprenda le nostre differenze”, spiega.

È possibile che la storia di Amorim finisca sul grande schermo? D’altronde due dei suoi quattro figli sono registi. Quando gli chiediamo in quale film s’identifica di più, risponde senza esitazioni: Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, una storia di resistenza, umanità e tenerezza che il diplomatico ha scoperto al cinema nel 1948 insieme a suo padre. Ancora oggi il film lo commuove e alimenta la sua speranza. “Sai”, conclude con tono filosofico, “la vita è un film girato in diretta, di cui nessuno conosce il finale”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati