Il 16 giugno Amir Ahmad Hajjam, 31 anni, si trovava nel suo negozio di frutta e verdura quando ha sentito le prime notizie degli scontri fra le truppe cinesi e indiane nella valle del Galwan, vicino alla Linea di controllo effettivo (Lac), che segna il confine tra India e Cina. Hajjam è originario del Jammu e Kashmir e il suo negozio è nel mercato principale di Leh, la capitale del territorio federale del Ladakh. Ha sentito che una ventina di soldati indiani erano stati uccisi e ha fatto i bagagli per tornare a casa. Hijjam lavora da dieci anni nella zona di Leh e per lui, come per migliaia di altre persone, l’estate è la stagione in cui si guadagna si più. Quando le tensioni si sono allentate grazie a una serie di incontri tra funzionari cinesi e indiani, Hijjam è tornato a Leh. Ma la pace non è durata a lungo e nella prima settimana di settembre è stato violato il cessate il fuoco. Nella zona a sud del lago Pangong, che si estende dal Ladakh orientale al Tibet, non si sparava lungo la Lac dal 1975.
Shankoo Satar, 74 anni, gestisce un negozio di pashmine a Leh e racconta che l’area occupata negli ultimi mesi dai cinesi prima era pattugliata delle truppe indiane. Lui frequentava quella zona per affari. “Andavamo anche settanta chilometri oltre il punto in cui ora si trovano i cinesi”, racconta. Secondo lui quel territorio è stato perso perché gli indiani si sono ritirati e i soldati cinesi se ne sono impadroniti. Satar ce l’ha anche con i giornalisti indiani che, sostiene, riportano storie false. Alcuni reporter televisivi hanno ammesso che i testi del notiziario arrivavano dalle sedi di New Delhi, dove si seguono linee guida imposte dall’alto. Un altro giornalista racconta che negli ultimi 17 giorni non è potuto uscire da Leh a causa delle restrizioni imposte dalle autorità. “Ogni giorno devo dire che la situazione è sotto controllo senza sapere qual è la realtà nelle zone dei disordini”, spiega.
Di recente Tenzin Nyima, 51 anni, soldato delle forze speciali indiane, è stato ucciso da una mina vicino al luogo degli scontri. I suoi genitori erano scappati dal Tibet negli anni cinquanta per stabilirsi a Choglamsar, un insediamento di tibetani fuggiti quando l’occupazione cinese era diventata ormai insopportabile.
Gli abitanti della regione temono per la situazione al confine, anche perché non hanno un altro posto dove andare. I continui spostamenti delle truppe indiane li tengono svegli la notte. Sirikit Yangzen, una donna di 82 anni, vive con una decina di parenti in un campo profughi dal 1950. “Non voglio che i miei nipoti debbano affrontare quello che abbiamo subìto noi”, dice Yangzen.
Nessuna concessione
L’economia indiana è nel caos, molti settori arrancano a causa della pandemia e sull’Himalaya le tensioni peggiorano la situazione. Ogni anno la zona accoglie migliaia di visitatori da tutto il mondo e per molti abitanti il turismo è una fonte cruciale di sostentamento.
Anche se i colloqui tra Cina e India continuano, nessuna delle due parti è disposta a fare concessioni. “La rivalità tra Cina e Stati Uniti si sta intensificando anche perché s’intensificano i rapporti tra Stati Uniti e India, che temono l’ascesa di Pechino. Questo per Pechino è un incentivo a mandare a entrambi i paesi un segnale forte, se non un vero avvertimento, facendo rumore nei pressi della Lac”, dice Michael Kugelman del Woodrow Wilson international center for scholars di Washington. New Delhi deve muoversi con cautela, tenendo conto dell’impatto che le sue decisioni possono avere su chi vive nella regione. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati