Spesso sentiamo dire che i festival musicali sono in pessima salute. In un contesto fatto di costi sempre più alti (per la sicurezza, per gli ingaggi dei grandi nomi) e disimpegno delle amministrazioni pubbliche, la formula dei grandi festival è un’equazione con un’incognita: il loro futuro. Il calo del fascino che i festival esercitano sui giovani e la concorrenza dei mega-show negli stadi pesano sull’avvenire di questa forma d’intrattenimento. Ma esiste un altro modello, più intimista e meno industriale, che sembra immune a questa deriva: quello dei microfestival, che favoriscono l’affermazione artistica e professionale dei giovani e rimettono al centro l’esperienza dello spettatore. Nei microfestival si ritrovano tutti gli stili e i generi, dalla musica sperimentale al cantautorato, con programmi di nicchia che attirano un pubblico di conoscitori.

Città o campagna

Secondo uno studio del Centre national de la musique, tra i francesi che dichiarano di ascoltare musica abitualmente tre su dieci hanno partecipato a un festival negli ultimi mesi e i microfestival sono stati gli eventi più frequentati. Si chiamano Atom, Douve Blanche, Oh Plateau!, New Trad Fest, Le Yeah o Champs Libres, sono in città o in campagna, itineranti o legati a un luogo, a volte multidisciplinari, con la caratteristica comune di svolgersi in piccoli spazi (di solito una capienza inferiore a tremila persone) e la volontà di ridefinire le aspettative.

Come spiega Cha Gonzalez, fotografa esperta di festival, “questi appuntamenti hanno un’identità più forte. Chi li frequenta si sente libero, ha l’impressione di far parte di qualcosa d’importante”. Questa identità passa per la programmazione musicale ma anche l’accoglienza o le scelte estetiche. “La maggior parte degli organizzatori fa molta attenzione all’universo visivo delle manifestazioni e lavora insieme a scenografi apprezzati”, aggiunge.

Pablo Belime, fondatore del festival Atom, dalle parti di Tolosa, è consigliere ambientale per il settore culturale e specialista dei microfestival, a cui ha dedicato uno studio. “Non esiste una definizione in sé perché non esiste il microfestival in sé. Si passa da un raduno di duecento persone, in cui un’élite si ritrova in campagna per spassarsela, a feste molto popolari, i cui organizzatori svolgono un lavoro di preparazione per tutto l’anno sul territorio. Ma possiamo individuare alcune caratteristiche ricorrenti, come l’impegno sociale o ambientale e la vicinanza con pubblico e artisti. Spesso c’è una ricerca di autenticità che manca negli eventi più grandi, dove ci si ritrova a guardare un concerto su uno schermo gigante e a passare un’infinità di tempo in fila per accedere a servizi essenziali come i bagni. La terza caratteristica condivisa di queste manifestazioni è la capienza ridotta, anche se spesso è un elemento relativo e dipende dai luoghi. Si va da poche centinaia a diverse migliaia di persone. In ogni caso, per essere considerato un microfestival, un evento deve trasmettere al pubblico la sensazione di partecipare a qualcosa che sia della giusta misura”.

Nella maggior parte dei casi questi festival sono stati immaginati come laboratori per appassionati intenzionati a entrare nella sfera culturale. Belime lo conferma: “Alla creazione di Atom ha partecipato una decina di persone. Oggi il 75 per cento lavora professionalmente nel settore della cultura. Come accade spesso, all’inizio eravamo un gruppo di amici decisi a creare un festival tutto nostro”.

Il festival Macki, Carrières-sur-Seine, 2024 (Remy Golinelli)

Alla vigilia della quinta edizione, Atom si barcamena tra impegno volontario, riflessioni sulla necessità di continuare e desiderio di andare oltre gli schemi. Concretamente, questo si traduce in un’organizzazione semiprofessionale e un approccio semiassociativo, con un comitato di programmazione su base volontaria. È una strategia che funziona grazie a un forte legame locale con le proposte dei residenti che sono sempre ben accette.

Un aspetto particolare di queste iniziative è la tendenza a mettere in discussione le dinamiche dei festival più tradizionali. Volendo costruire appuntamenti attorno all’idea di comunità, molti si affidano a una comunicazione dal basso in cui il passaparola va di pari passo con la capienza ridotta ma anche con una “cernita” del pubblico.

Per scongiurare le violenze sessuali e sessiste che spesso macchiano i festival più grandi, questi eventi adottano il concetto di spazio sicuro proponendosi come luoghi in cui tutte le minoranze possono partecipare senza timori. In questa prospettiva, il festival Free­rotation organizzato nel Regno Unito ha scelto la strada dell’esclusività. Il Fusion di Berlino, vittima del suo successo, ha invece creato un meccanismo di estrazione a sorte per non modificare la capienza senza escludere nessuno a priori. Opzioni controcorrente rispetto alle pratiche degli eventi più commerciali.

All’avanguardia

Per i microfestival l’obiettivo è quello di ristabilire il legame tra il pubblico e l’evento, in modo da non essere percepiti come una macchina industriale disumanizzata. Da questo punto di vista si possono considerare una sorta di avanguardia per il futuro dello spettacolo dal vivo, capaci di innovare in ambiti essenziali come la retribuzione degli artisti e dei tecnici (alcuni immaginano un principio del “cachet unico”) o permettendo al pubblico di partecipare all’organizzazione.

Come la crescita a dismisura, anche la longevità a qualsiasi costo non è nel dna del microfestival. Molti eventi precursori dello scorso decennio come Baleapop nel Paese Basco, Pete The Monkey in Normandia o il Macki nella banlieue parigina, oggi sono scomparsi. Il primo ha avuto la sua ultima edizione nel 2019, mentre gli altri due hanno annunciato la loro fine per quest’anno. Matthieu Piguet, tra gli organizzatori del Macki, commenta: “Preferiamo smettere in un momento buono, con stile. È il nostro dodicesimo anno. Le necessità delle persone che fanno parte del nostro collettivo si sono evolute. Avremmo potuto cercare di vendere il nostro marchio a qualche gigante del settore deciso a diversificare la sua offerta, ma abbiano deciso di non farlo. Abbiamo costruito questo progetto e ne siamo fieri. Vogliamo concluderlo insieme”.

È una scelta coraggiosa ma comprensibile. Gli organizzatori del Baleapop oggi si occupano di Udada, un festival multidisciplinare che si concentra sulla danza e le performance e si svolge in diverse aree della cittadina di Saint-Jean-de-Luz. Alcuni degli organizzatori del Macki stanno lavorando allo Iota, sull’isola di Oléron, un festival musicalmente più sperimentale, itinerante e dedicato anche alla gastronomia. Oggi più che mai, i microfestival sono il terreno dell’avanguardia. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati