M olti si aspettavano che Mosca sarebbe stata la vincitrice indiscussa delle elezioni bielorusse: la violenta repressione delle proteste ha compromesso i rapporti con l’occidente, e avrebbe dovuto spingere Minsk tra le braccia del Cremlino. Ma la crisi ha assunto una dimensione molto più profonda rispetto alle previsioni.

Il 14 settembre a Soči Lukašenko ha incontrato Vladimir Putin per la prima volta dall’inizio delle proteste. Si era preparato a questo momento per settimane. È tornato a considerare l’occidente il nemico principale. Ha schierato l’esercito al confine con la Polonia. Ha ricominciato ad accusare l’opposizione di essere manovrata dagli Stati Uniti, mentre fino all’inizio di agosto diceva che erano i russi a tirare le fila. Ha tentato di fermare le proteste aumentando la repressione, con centinaia di arresti, cannoni ad acqua e granate assordanti. La violenza è stata usata anche contro le donne. Lukašenko voleva arrivare a Soči con la vittoria già in mano. Ma non ce l’ha fatta. Anche se nelle province l’entità delle proteste non è più quella di un mese fa, a Minsk ogni domenica manifestano più di centomila persone.

La Bielorussia rischia di trasformarsi in una grande Crimea isolata dal mercato mondiale e dagli investimenti, e di pesare ancora di più sul bilancio russo

L’incontro è avvenuto senza delegazioni: i presidenti hanno parlato per più di quattro ore da soli. Non è stata letta una dichiarazione comune. L’unico risultato concreto è il prestito da 1,5 miliardi di dollari già promesso da Putin. È un sostegno essenziale, anche se non enorme. Equivale più o meno a quello che la Banca nazionale della Bielorussia ha speso ad agosto per contrastare l’ondata di panico nel mercato valutario. Ma ben pochi di quei soldi arriveranno effettivamente a Minsk. Entro la fine dell’anno la Bielorussia deve rifinanziare altri prestiti per più di un miliardo di dollari, di cui la maggior parte saranno diretti a Mosca, e dovrà pagare più di 300 milioni di debiti all’azienda russa Gazprom.

Dopo l’incontro Putin ha ribadito il suo sostegno alla riforma della costituzione promessa da Lukašenko. È chiaramente il preludio a un passaggio di poteri. Lo stesso presidente bielorusso ha dichiarato di essere disposto a indire nuove elezioni una volta realizzata la riforma.

Lukašenko invece ha ripetuto che gli amici si riconoscono nel momento del bisogno e che in economia “è necessario tenersi stretti i vecchi amici”. Non sono solo frasi di circostanza: i ponti verso l’occidente e l’equilibrismo commerciale di Minsk sono ormai andati in fumo.

Putin e Lukašenko non hanno mai trattato da pari a pari, e ora la differenza è ancora più evidente. Sarebbe affrettato però concludere che ora Putin ha un part­ner disposto a fare tutto quello che Mosca vuole, e non è saggio aspettarsi che Lukašenko sia disposto a qualunque concessione.

Mosca ama tutti

La crisi bielorussa ha intaccato la fiducia reciproca, e i due autocrati non possono più illudersi di essere eterni. Obbligare Lukašenko ad accettare l’integrazione con la Russia potrebbe rivelarsi difficile come in passato e creare più problemi che benefici.

Se Lukašenko consegnasse il paese a Putin, le proteste per la democrazia assumerebbero il carattere di una lotta nazionale per difendere l’indipendenza. In questo caso la Russia potrebbe scordarsi il favore di cui gode tra la maggioranza dei bielorussi. Tra i cittadini comuni l’odio per Lukašenko è più forte della simpatia per la Russia.

Comprendendo tale rischio, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha cercato di attenuare l’effetto causato dall’appoggio a Lukašenko, e dopo l’incontro di Soči ha affermato che Mosca ama allo stesso modo tutti i bielorussi, sia quelli che riconoscono il risultato delle elezioni sia quelli che lo contestano.

Ancora più importante è il fatto che la parola di Lukašenko vale sempre meno. Se riuscirà a rinsaldare la sua posizione, bloccherà subito il processo d’integrazione con la stessa leggerezza con cui prima delle elezioni aveva spostato l’obiettivo dei suoi attacchi dall’occidente alla Russia, per poi fare il contrario. Se invece continuerà a indebolirsi non sarà più in grado di realizzare un piano tanto ambizioso.

Ci sono problemi anche dal punto di vista della legittimità internazionale. Qualsiasi accordo che limiti visibilmente la sovranità bielorussa non sarà riconosciuto dall’occidente. Per questo un protettorato bielorusso rischia di trasformarsi in una grande Crimea isolata dal mercato mondiale e dagli investimenti. In questo modo il paese finirebbe per pesare ancora di più sul bilancio russo.

Perciò a Mosca conviene puntare a concessioni più concrete e immediate, per esempio la privatizzazione di aziende di valore come le raffinerie, le industrie militari o l’enorme stabilimento per la produzione di potassio Belaruskali. Dato che in tutte queste fabbriche ci sono stati scioperi contro Lukašenko, è probabile che il presidente non sia più così contrario a cederle.

Un’altra soluzione è stata proposta da Minsk: per vendicarsi della Lituania, il primo paese ad adottare sanzioni contro di lui, Lukašenko ha ordinato di trasferire le importazioni e le esportazioni bielorusse dai porti lituani a quelli russi. Sarà più caro per Minsk, ma Mosca può sicuramente offrire sconti sulle tariffe pur di approfondire i legami con l’economia bielorussa.

Mosca può provare di nuovo a chiedere di installare basi militari in Bielorussia, dato che il paese non può più proporsi come un centro neutrale di stabilità nella regione. Ma questo potrebbe avere un effetto simile all’integrazione forzata. I sospetti che Lukašenko voglia portare nel paese gli “omini verdi” che hanno occupato la Crimea stanno mobilitando i manifestanti.

Non che il Cremlino sia molto attento a questi umori. Il potere russo, come quello bielorusso, tende a sminuire l’autonomia dei manifestanti, preferendo cercare i loro istigatori stranieri. Ma la destabilizzazione va contro gli interessi di Lukašenko e di Putin, ed è impossibile che il presidente russo non se ne renda conto.

Per Mosca lo scenario ideale sarebbe una stabilizzazione incruenta a opera di Lukašenko seguita da una transizione coordinata con il Cremlino verso un sistema di potere meno verticistico.

In questo modo la Russia non sarebbe più legata a Lukašenko o al suo successore, e sarebbe in grado di influenzare la politica bielorussa attraverso partiti alleati, singoli individui ai vertici delle forze armate e della politica e il controllo di settori dell’industria bielorussa e dei flussi finanziari, senza preoccuparsi del diritto di veto di un presidente onnipotente.

Ma nessuno sa cosa pensi Lukašenko di questo piano. Preferirà andarsene alla svelta, oppure le promesse di riforma sono un modo per guadagnare tempo e dividere gli oppositori? Come cambieranno i suoi piani se le proteste si indeboliranno? È davvero disposto a consultarsi con Mosca per il delicato processo di trasferimento dei poteri?

A risolvere questi dubbi sarà probabilmente l’economia. Le sanzioni occidentali e la sfiducia dei bielorussi verso le istituzioni faranno diminuire bruscamente gli investimenti. La crescita economica è impossibile senza ingenti e regolari iniezioni di denaro dall’estero. Al paese servono fra i tre e i cinque miliardi di dollari di prestiti stranieri all’anno, ma i mercati internazionali sono chiusi per Lukašenko. L’unica speranza è la Russia.

Questione di tatto

Anche se è all’angolo, il presidente cercherà di convincere il Cremlino che sta salvando il paese da una rivolta antirussa e dai carri armati della Nato. In risposta continuerà a sentire allusioni alla necessità che esca di scena. Mosca dovrà condurre questo dialogo senza movimenti bruschi.

Se le élite e la società bielorussa sentiranno che Lukašenko ha perso il sostegno della Russia, il suo regime potrebbe cadere improvvisamente. Ma il Cremlino non vuole arrivare a questo punto prima di avere un’alternativa affidabile.

Lukašenko ha capito l’importanza di questo monopolio dei contatti, e continuerà a bloccare le trattative separate con Mosca e ad arrestare tutti gli oppositori in modo che la Russia non possa trovare altri interlocutori.

Da mela matura pronta per essere colta, per la Russia il regime bielorusso è diventato sempre più simile a un investimento sbagliato di cui non si riesce a liberare. Se Lukašenko riuscirà a sopravvivere alla fase acuta delle proteste, Mosca dovrà fare attenzione a dosare il bastone e la carota per condurlo dove vuole senza che s’indebolisca o si rafforzi improvvisamente.

Ma la politica del Cremlino nello spazio post-sovietico non offre molti esempi di sensibilità. Una cosa è creare e congelare i conflitti, un’altra è gestire una transizione ordinata in un paese in cui, nonostante la comunanza linguistica, Mosca non può contare su nessun punto di appoggio sicuro. ◆ ab

Artyom Shraibman è un giornalista e politologo bielorusso.

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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati