Se l’infelicità siriana avesse un volto, sarebbe quello di Mazen el Hamada. Emaciato e androgino, un tempo euforico ma demolito dalla macchina del regime, racconta la tragedia siriana degli ultimi dieci anni: un viaggio ai limiti della violenza, dell’odio e della disumanizzazione che ormai, e questo forse è il suo dramma più grande, non suscita più altri sentimenti che il cinismo o l’indifferenza. Il rivoluzionario siriano è dato per disperso da un anno. Dopo essere sfuggito alle grinfie del regime e averne descritto la barbarie, il giovane attivista aveva scelto di tornare nella tana del lupo.
Oltre alle centinaia di migliaia di morti e alle centinaia di migliaia di scomparsi, quanti siriani come lui hanno visto la loro vita e i loro sogni divorati dal regime negli ultimi dieci anni? Quanti decenni ci vorranno perché i siriani si risollevino da questo dramma senza fine, che per un periodo ha messo il loro paese al centro (geopolitico) del pianeta, ma che alla fine li ha convinti che tutta la loro sofferenza non valeva niente agli occhi del mondo?
Fin dall’inizio, quando i bambini di Daraa hanno scritto sui muri della loro scuola “è arrivato il tuo turno, dottore”, riferendosi al presidente Bashar al Assad, era evidente che il seguito della storia sarebbe stato brutale e radicale. Come poteva non esserlo dopo decenni di repressione nel “regno del silenzio e della paura”? Il regime aveva già mostrato che per sopravvivere era pronto a tutto, tranne che a fare la minima concessione. E la rivoluzione non aveva altra scelta che prendere le armi.
Rapporti di forza
A partire da questa constatazione si può ricostruire quello che è successo. Forse la solidità del regime è stata sottovalutata? È possibile. Forse l’opposizione è in parte responsabile del suo fallimento, incapace di strutturarsi, superare le divisioni tra islamisti e laici e proporre un’alternativa? Certamente. Forse l’intervento delle petromonarchie del Golfo in favore dei movimenti islamisti e salafiti ha dirottato la rivoluzione verso una guerra regionale per procura sullo sfondo delle tensioni tra sunniti e sciiti? Senza dubbio.
Sono tutti elementi non trascurabili e devono essere considerati nel bilancio generale della tragedia siriana. Ma sono secondari rispetto ai veri fattori determinanti del conflitto. Era, e continua a essere, tutta una questione di rapporti di forza tra un potere deciso a schiacciare con ogni mezzo qualsiasi forma di opposizione e una parte della popolazione che non sopporta più di vivere sotto il suo giogo. I ribelli hanno fatto molto di più che resistere all’esercito siriano. Ma cosa potevano fare di fronte alle decine di migliaia di miliziani sciiti che combattevano sotto la guida iraniana e, più tardi, all’arrivo dell’esercito russo deciso soprattutto a testare l’efficacia delle sue nuove armi?
Senza intervenire con l’obiettivo di far cadere il regime, gli occidentali avevano i mezzi per riequilibrare i rapporti di forza o per permettere ai civili di vivere al riparo dalle bombe, creando delle no fly zone. Ma hanno scelto di non fare niente, continuando a chiedere la fine del regime che, rafforzato dal sostegno dei suoi alleati e dall’isolamento diplomatico dei suoi oppositori, ha avuto gioco facile a opporre la realtà dei fatti alle formule retoriche.
La guerra siriana ha conosciuto varie svolte: l’affermazione del gruppo Stato islamico e la sua disfatta, l’avanzata delle forze curde e la loro disfatta, l’arrivo delle forze russe, di quelle turche, la caduta di Aleppo, la vera-falsa ritirata delle truppe statunitensi. Ma l’ago della bilancia si è spostato nell’estate del 2013, dopo il rifiuto di Washington d’intervenire in risposta agli attacchi chimici che hanno fatto quasi duemila morti nella Ghuta orientale, anche se Barack Obama aveva minacciato che l’uso di armi chimiche avrebbe provocato una reazione americana.
L’intervento statunitense non avrebbe provocato la caduta del regime (non era il suo obiettivo) ma avrebbe avuto un impatto psicologico sia su Damasco e i suoi alleati, che comprendono solo il linguaggio della forza, sia sul morale dei ribelli, che forse non avrebbero avuto la sensazione di essere abbandonati dal mondo. L’intervento occidentale si è realizzato nel 2018, senza provocare la grande crisi internazionale profetizzata cinque anni prima.
◆ Il 14 marzo 2021 la polizia britannica ha aperto un’indagine su Asma al Assad, moglie del presidente siriano Bashar, che potrebbe essere accusata di aver promosso, sostenuto e incoraggiato atti terroristici e crimini di guerra delle forze governative. Asma al Assad, che ha 45 anni ed è nata e cresciuta a Londra prima di sposare Bashar nel 2000, potrebbe essere privata della nazionalità britannica. Il giorno dopo l’avvio dell’indagine tre ong hanno presentato a Mosca una denuncia contro la compagnia militare privata Wagner, vicina al Cremlino, per un possibile crimine di guerra legato alla tortura e all’uccisione nel 2017 di un siriano. Sono le ultime di una serie di azioni legali avviate in Europa contro Damasco. Il 1 marzo altre tre ong hanno presentato una denuncia a un tribunale di Parigi contro il regime di Assad, accusato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra per gli attacchi chimici condotti a Duma nel 2013. Denunce contro funzionari di alto grado del regime di Assad sono state depositate da un centinaio di rifugiati siriani in Germania, Austria, Norvegia e Svezia. Al Jazeera
I rapporti di forza sono stati determinati da considerazioni strategiche ma anche da tesi quasi mitologiche. Fin dall’inizio Assad ha usato le minoranze contro la “minaccia sunnita”, la borghesia ricca contro i poveri. Ha fatto perno sulle angosce esistenziali degli uni e sugli interessi degli altri per consolidare la sua base interna. Ma il suo vero colpo di mano, l’unica vittoria che gli può essere attribuita, è essere riuscito a vendere questa narrazione all’estero. Ha fatto credere che nonostante la brutalità, il suo restasse un potere laico (anche se mai un regime è stato tanto confessionale) e moderno (anche se ne ha solo gli attributi più volgari), preferibile all’ignoto. Ha fatto credere che Assad fosse meglio del caos, un’equazione a cui la maggior parte delle potenze ha finito per aderire per convinzione, mancanza di coraggio o cinismo. Il posizionamento degli stati e degli individui rispetto al conflitto siriano è in primo luogo legato alle loro convinzioni e alla risposta a questa domanda: i siriani, in prevalenza sunniti, potevano essere o diventare dei democratici? La maggioranza ha ritenuto di no.
È stato uno sbaglio morale, politico e strategico dalle conseguenze pesantissime. È evidente che la Siria non sarebbe diventata un paese scandinavo in caso di vittoria dei ribelli, gli islamisti avrebbero potuto prendere il potere e le tensioni confessionali non sarebbero scomparse. Sarebbe stata una situazione tutt’altro che ideale. Ma poteva essere peggio di oggi? Peggio dell’esilio e dello sfollamento di metà della popolazione, dell’intervento delle potenze regionali e internazionali, dell’emergere dei gruppi jihadisti più potenti della storia? Peggio di una guerra civile globalizzata, dello smembramento di una nazione e del sacrificio di un’intera generazione? Dieci anni dopo, non è ammissibile dubitare: Assad è il caos.
Il re è nudo
Il regime ha vinto la guerra sacrificando la sua popolazione, la sua sovranità e il suo futuro. Il re è nudo e regna sulle rovine, mentre né lui né i suoi alleati hanno i mezzi per avviare una ricostruzione il cui costo è stimato in diverse centinaia di miliardi di dollari. La crisi economica scuote per la prima volta la base del regime e anche la comunità alawita comincia a protestare. Il paese è diviso in varie zone, con gli Stati Uniti a est, la Turchia a nord e a ovest, i russi che dominano il litorale, mentre gli iraniani tentano di stabilirsi a sud ma sono presi di mira dagli attacchi israeliani.
L’Iran, che era tra i grandi vincitori, è costretto ad arretrare di fronte alla pressione di Israele ma anche della Russia, che ha capito che Teheran minacciava il suo progetto di stabilizzare la Siria e di raccogliere i frutti della vittoria. La Turchia si è imposta come la seconda forza più importante sul terreno e sarà difficile cacciarla. Il dramma siriano purtroppo non è affatto finito, e se continua su questa strada il paese è condannato a rimanere uno stato satellite per molti anni. Quanto a Bashar al Assad, la storia ricorderà che è riuscito allo stesso tempo a completare e a distruggere l’opera di suo padre. ◆ _fdl _
Anthony Samrani _ è vicedirettore del quotidiano libanese L’Orient-Le Jour._
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Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale, a pagina 27. Compra questo numero | Abbonati