Strategiche e vitali per l’economia, dopo le ultime crisi finanziarie le banche sono diventate uno dei settori più regolamentati. Eppure, nonostante regole e controlli, la finanza mondiale continua a essere permeabile al riciclaggio e non riesce a contrastare la circolazione di denaro sporco. È quanto emerge dai cosiddetti Fincen files, la nuova inchiesta condotta dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij) in collaborazione con il sito d’informazione statunitense BuzzFeed News e altre 108 testate di tutto il mondo.

L’inchiesta si basa sull’esame di più di 2.100 segnalazioni di operazioni sospette (suspi­cious activity reports, sar) trasmesse dalle banche di tutto il mondo alla Financial crimes enforcement network (Fincen), l’autorità statunitense che si occupa del riciclaggio di denaro sporco. Queste segnalazioni sono l’equivalente statunitense delle comunicazioni che le banche francesi devono trasmettere all’autorità antiriciclaggio Tracfin quando sospettano attività di riciclaggio, finanziamento al terrorismo o elusione di sanzioni ed embarghi (in Italia vengono fatte alla Banca d’Italia). Si tratta di documenti riservati che riguardano operazioni per quasi 2.100 miliardi di dollari realizzate dal 1999 al 2017. Evidenziano come le banche, che garantiscono gran parte delle transazioni finanziarie internazionali, facciano circolare in modo passivo – attraverso conti bancari di persone o società che non sono in grado di identificare – denaro legato al riciclaggio di denaro guadagnato con attività illegali (per esempio frodi fiscali o traffico di droga, armi e opere d’arte).

I documenti ottenuti da Buzz­Feed News sono in larga misura frutto di una fuga d’informazioni dai dossier della commissione d’inchiesta del congresso statunitense sulle presunte ingerenze della Russia nella campagna per le elezioni presidenziali del 2016, che si conclusero con la vittoria di Donald Trump. Queste segnalazioni di operazioni sospette, che rappresentano solo lo 0,02 per cento di quelle ricevute dalla Fincen tra il 2011 e il 2017, si limitano quindi a persone, aziende e banche legate in modo diretto o indiretto alla vicenda delle ingerenze russe.

Tuttavia svelano la portata dei movimenti sospetti di denaro nelle più grandi banche del mondo. Offrono informazioni sul modo in cui le banche identificano e segnalano (o non segnalano) i flussi finanziari sospetti che si spostano da un capo all’altro del pianeta attraverso i loro “canali”. Come ricorda Graham Barrow, ex responsabile del controllo finanziario della Deutsche Bank ed esperto di antiriciclaggio, “i criminali non riciclano direttamente il loro denaro. Lo inviano in posti sicuri grazie alle banche”. In altri termini, “la banca svolge il ruolo della vettura in cui gli scassinatori scappano dopo il furto”, afferma sferzante Thomas Creal, esperto statunitense di crimini finanziari.

Nell’epoca della globalizzazione finanziaria ci troviamo davanti all’inappellabile dato di fatto che, nonostante il recente inasprimento delle norme antiriciclaggio, le banche continuano a essere fortemente vulnerabili da questo punto di vista. Se è vero che la regolamentazione del settore bancario mondiale è uno dei grandi temi dei prossimi decenni, i Fincen files evidenziano il ruolo centrale delle grandi banche nella circolazione di flussi di denaro sporco legati alla frode, alla corruzione, al crimine organizzato e al terrorismo.

La Hsbc ha trasferito denaro per conto di un’azienda coinvolta in una truffa

Cinque grandi istituti

I documenti svelano che almeno cinque grandi banche – JPMorgan, Hsbc, Standard Chartered Bank, Deutsche Bank e Bank of New York Mellon – non sono riuscite ad arginare alcuni trasferimenti illeciti di capitali, a volte neanche dopo essere state sanzionate ed essersi impegnate davanti alla giustizia a rafforzare i loro controlli. È il caso del gigante britannico Hsbc, che nel 2012 aveva ammesso di aver riciclato quasi 900 milioni di dollari per conto di alcuni cartelli della droga sudamericani. All’epoca la banca si era sottratta a una condanna in tribunale pagando una multa di 1,9 miliardi di dollari e promettendo d’impegnarsi nella lotta contro il riciclaggio. In realtà, come emerge dai Fincen files, tra il 2012 e il 2017, quando la giustizia statunitense le aveva accordato la sospensione condizionale della condanna, ha gestito i capitali di riciclatori di denaro russo o di noti criminali finanziari.

Tra il 2013 e il 2014 la Hsbc ha continuato a trasferire denaro per conto di un’azienda coinvolta in una truffa finanziaria di vaste proporzioni negli Stati Uniti. La frode seguiva uno schema Ponzi (un meccanismo a piramide che consiste nell’attirare gli investitori promettendo alti rendimenti, che in realtà vengono pagati con i soldi via via versati dai nuovi clienti; lo schema s’interrompe quando le richieste di rimborso superano i nuovi versamenti). Questa truffa ha colpito decine di migliaia di risparmiatori nelle comunità asiatiche e latinoamericane con un danno finanziario globale di 80 milioni di euro. Eppure l’azienda coinvolta, la Wcm, era nel mirino delle autorità di tre paesi e i servizi di controllo della banca sapevano di avere a che fare con una probabile fregatura. L’Hsbc ha perfino lasciato aperto il conto della società dopo che le autorità statunitensi hanno deciso di congelare i suoi beni nel marzo del 2014.

La JPMorgan, la principale banca statunitense, ha fatto transitare più di 50 milioni di dollari sul conto di Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump. Il denaro proveniva da un’opaca azienda britannica, la Novirex, che con il suo strano comportamento avrebbe dovuto far scattare già molto tempo prima i controlli interni della banca: 200mila dollari ricevuti da un’azienda con sede nelle Isole Vergini Britanniche per della “biancheria intima”, 34mila dollari inviati a Hong Kong per “autoadesivi per tastiere”, 400mila dollari per degli “stivali”. Il tutto dichiarando meno di 2.500 dollari di spese nei suoi rapporti finanziari. “Se fossi alla JPMorgan e vedessi una cosa del genere, direi: ‘È spaventoso’”, commenta l’ex funzionario di polizia britannico Martin Woods, specialista nella lotta contro il riciclaggio. “Quale azienda normale compra contemporaneamente computer, biancheria intima e secchi?”.

Eppure è stato solo dopo che i giornalisti statunitensi hanno rivelato i rapporti tra Manafort e il governo ucraino che la JPMorgan ha finalmente deciso d’inviare delle segnalazioni di operazioni sospette alle autorità. Nel marzo del 2019 l’ex lobbista è stato condannato a quasi quattro anni di prigione per frode bancaria e fiscale. Il processo ha dimostrato che aveva ricevuto 40 milioni di dollari dalla Novirex, proprietà del braccio destro dell’ex presidente ucraino Viktor Janukovyč.

La JPMorgan, inoltre, ha permesso al finanziere miliardario malese Jho Low di trasferire quasi 1,25 miliardi di dollari di fondi sospetti nel giro di tre anni. Come rivela una segnalazione del gennaio 2017, la banca ha approvato 33 versamenti che avrebbero consentito l’acquisto di quote in un albergo di lusso a Manhattan anche se Low era stato identificato già dal 2015 come personaggio chiave nello scandalo esploso intorno al fondo sovrano malese 1Mdb, il più grave caso di corruzione internazionale degli ultimi dieci anni.

Da sapere
La Deutsche Bank

◆ La Deutsche Bank è stata coinvolta in tutte le inchieste del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij). Non fa eccezione l’inchiesta Fincen files, da cui emerge “una condotta in Russia da far rizzare i capelli in testa, ma anche la negligenza di Christian Sewing, in passato capo dei controlli interni e oggi amministratore delegato della banca”, scrive la Süddeutsche Zeitung. “Nel 2014 la sua divisione avviò delle indagini su una serie di scambi azionari dietro ai quali si nascondevano operazioni di riciclaggio di denaro sporco proveniente dalla Russia. Sewing aveva detto che era tutto in ordine. Ma alcuni esperti, incaricati in seguito dalla Deutsche Bank di controllare quelle operazioni, affermarono che il lavoro della divisione di Sewing presentava gravi lacune e insufficienze. Il loro rapporto, però, non fu mai reso noto”.


Semplici ricerche su Google

Un altro colosso finanziario statunitense coinvolto è la Citibank. L’istituto si è mostrato compiacente con il senegalese Lamine Diack, ex presidente della Federazione internazionale di atletica. Condannato il 16 settembre 2020 a Parigi a quattro anni di prigione, due dei quali con la condizionale, e a una multa di 500mila euro, Diack aveva insabbiato casi di doping nell’atletica russa in cambio di tangenti. I Fincen files dimostrano che la banca statunitense ha aspettato fino al 2016, quasi un anno dopo l’arresto di Diack, per dichiarare alle autorità 112 pagamenti sospetti legati all’ex presidente della federazione: significa che 55,7 milioni di dollari sono stati lasciati transitare per anni senza alcun problema, anche in presenza di elementi sconcertanti che indicavano il carattere poco chiaro dei bonifici.

Per quanto riguarda la Standard Chartered, non solo la banca ha mantenuto rapporti con la giordana Arab Bank, accusata dagli Stati Uniti di finanziare il terrorismo, ma la sua filiale di Hong Kong ha mantenuto aperti i conti correnti su cui sono transitati milioni di dollari per conto di un’azienda che rivendeva reperti archeologici trafugati in Afghanistan, in India e in Nepal. I mercanti d’arte al centro di questo traffico, Subhash Kapoor e Nancy Wiener, sono stati indagati a New York nel 2019. I Fincen files dimostrano che la banca ha ignorato le finalità di quest’azienda o il posto in cui era registrata.

Procedure rigide

Tutti questi sono solo casi isolati? Non per le Nazioni Unite, secondo cui le autorità riescono a individuare appena l’1 per cento dei 2.400 miliardi di dollari riciclati ogni anno. La stima sembra essere confermata dai documenti riservati della Fincen, pieni di transazioni realizzate da società offshore con sede in paradisi fiscali opachi come Cipro, le Isole Vergini Britanniche, Hong Kong o gli Emirati Arabi Uniti, società di cui le stesse banche non conoscono i veri proprietari.

Da sapere
Cali in borsa

◆ Il 21 settembre 2020, in seguito alle rivelazioni dell’inchiesta Fincen files realizzata dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), le azioni delle più importanti banche del mondo hanno registrato forti perdite. Il titolo della Deutsche Bank ha perso più del 9 per cento, mentre quello della JPMorgan Chase è sceso del 4 per cento. Le azioni della Hsbc e della Standard Chartered hanno toccato il livello più basso degli ultimi 25 anni. In diversi paesi, intanto, i politici e le autorità di controllo dei mercati finanziari hanno chiesto l’introduzione di riforme. “Migliaia di miliardi di dollari di denaro sporco tengono in piedi una rete tossica di attività illegali. La banche devono mettere l’integrità al centro della loro attività. È ora di agire,” ha dichiarato Linda Lacewell, dirigente del New York state department of financial services. “È uno scandalo che le grandi banche permettano il riciclaggio di denaro sporco su larga scala perfino dopo la crisi finanziaria,” ha detto l’europarlamentare verde Sven Giegold. Icij


In teoria le banche sono obbligate ad attuare rigide procedure di verifica delle operazioni dei loro clienti: la procedura Kyc (Know your customer, conosci il tuo cliente) gli impone di sapere chi è la persona fisica beneficiaria di conti aperti a nome di una società. Tuttavia nella metà delle 2.100 segnalazioni di operazioni sospette esaminate dall’Icij le banche ignoravano chi fosse il loro cliente.

In diverse occasioni i controllori interni delle banche si sono accontentati di semplici ricerche su Google per raccogliere informazioni sull’identità dei clienti. Spesso hanno depositato le segnalazioni di operazioni sospette solo dopo le rivelazioni della stampa o l’apertura di inchieste giudiziarie sui clienti, quando in molti casi il denaro era già volato via da tempo.

La JPMorgan, per esempio, avrebbe fatto transitare più di un miliardo di dollari per conto dell’azienda cipriota Abdi Securities tra il 2010 e il 2015, per poi apprendere dai mezzi d’informazione che apparteneva a Semen Mohylevyč, da molti definito il “boss dei boss” della malavita russa. Mohylevyč ha negato di avere a che fare con l’azienda cipriota.

La banca francese Société générale non è da meno. Solo dopo le rivelazioni dei Panama papers (un’altra inchiesta dell’Icij sui documenti riservati dello studio legale panamense che fornivano informazioni dettagliate su 214mila società offshore), la succursale newyorchese dell’istituto ha risposto alle domande con cui la Fincen chiedeva informazioni su decine di milioni di dollari transitati su conti correnti di società con sede alle Isole Vergini Britanniche. Questi conti erano stati aperti presso la filiale svizzera della Société générale, la Sgpb, che aveva rifiutato di divulgare alla filiale di New York il nome dei loro veri titolari appellandosi al segreto bancario.

Quindi sono stati necessari i Panama papers perché la banca scoprisse finalmente che aveva a che fare con esponenti della famiglia Rotenberg, clienti a rischio ritenuti vicini al presidente russo Vladimir Putin. Solo allora quest’informazione è arrivata alla Fincen. I problemi però sono proseguiti anche dopo quest’episodio. Nel 2017 la Société générale ha appreso dai giornali il ruolo giocato dal suo cliente Aras Agalarov, un magnate del settore immobiliare vicino a Vladimir Putin, nelle possibili interferenze della Russia nella campagna per le elezioni presidenziali statunitensi del 2016. A quel punto il ramo newyorchese della banca si è interrogato sulle numerose transazioni approvate, tra cui un trasferimento di 19,5 milioni di dollari tra due conti di Agalarov il 20 giugno del 2016, cioè dieci giorni dopo il suo incontro segreto con la squadra di Donald Trump. Per sapere da dove veniva quel denaro la filiale si è rivolta alla Sgpb, in Svizzera. Ma l’inchiesta si è fermata qui. “Dopo numerosi solleciti, la Sgpb non ha potuto rispondere alle nostre domande”: con queste parole nell’ottobre del 2017 la Société générale di New York si è giustificata con la Fincen.

Comunque le autorità di controllo francesi non hanno ignorato una questione così delicata. In un documento del settembre del 2019 dedicato al “pilotaggio consolidato” dei meccanismi antiriciclaggio di banche e compagnie di assicurazione, l’Autorité de contrôle prudentiel et de résolution (Acpr), che controlla le banche francesi, ha scritto che sono stati fatti degli sforzi importanti. Nello stesso documento si punta il dito contro le “insufficienze” in materia di “scambi d’informazioni sui clienti all’interno dello stesso gruppo”, e si fa appello alle banche perché mettano in campo “meccanismi che consentano una condivisione fluida ed efficace delle informazioni”.

Scorrendo le migliaia di pagine dei Fincen files, emerge un dato evidente: le grandi banche non si dotano degli strumenti necessari per combattere in modo efficace il riciclaggio bloccando la circolazione del denaro sporco al minimo sospetto. Secondo John Cassera, un esperto di crimini finanziari che ha lavorato alla Fincen tra il 1996 e il 2002, le sanzioni imposte in caso di trasgressione sono semplicemente troppo deboli. Le ammende di poche centinaia di milioni di dollari non pesano molto sui profitti realizzati dalle grandi banche. Secondo l’avvocato statunitense James S. Henry, per cambiare davvero le cose “i più importanti dirigenti del settore bancario devono sentirsi in pericolo” ed essere chiamati a rispondere in modo diretto, pena il pagamento di “multe o il carcere”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1377 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati