“Ho lasciato il mio paese, perché volevo stare meglio, perché avevo il sogno di cambiare tutto, di voltare pagina”. Lana è una donna trans di origine brasiliana che vive in Italia da diciotto anni. È stata una lavoratrice del sesso, ma quando si è trovata in difficoltà si è rivolta al Movimento identità trans (Mit) di Bologna. Il movimento l’ha aiutata a entrare nella casa Marielle Franco, la struttura che porta il nome dell’attivista femminista e politica brasiliana, uccisa a Rio de Janeiro nel 2018.
“Quando sei in difficoltà, tutto va male. La prima cosa è la volontà di uscirne, nessuno può aiutare qualcuno che non vuole uscirne”, continua Lana. Oggi vive con altre tre persone nelle sue stesse condizioni nella struttura aperta nel 2019 dal comune di Bologna nell’ambito del progetto Sistema accoglienza e integrazione (Sai, ex Sprar), e gestita dalla stessa amministrazione comunale insieme alla cooperativa Cidas.
“A un certo punto sei stanca di essere un oggetto del piacere, anche se questo ti porta dei soldi, ma ti senti vuota”, afferma. Quando si è fermata e ha lasciato il lavoro sulla strada, però, non ha trovato più nulla: non aveva una casa né una famiglia. Come molte lavoratrici del sesso, ha dovuto fare i conti con la povertà e la solitudine.
“Io voglio rimanere in Italia, penso che sia un mio diritto, vorrei una casa. Non ho fatto mai male a nessuno, sono stata sul marciapiede”, continua. Lana sa che questo obiettivo è molto complicato da raggiungere e che senza il sostegno del centro sarebbe rimasta sulla strada.
“Abbiamo aperto una prima struttura di accoglienza nel 2019, è stata la prima esperienza a livello nazionale di un centro specifico per persone trans, poi ne sono nate delle altre. Ora abbiamo 28 posti in totale divisi in sette strutture. Fanno parte tutte del sistema di accoglienza ordinaria del Sai con un’équipe multidisciplinare che se ne occupa, ma in più nella squadra c’è anche un’operatrice trans alla pari”, racconta Antonella Ciccarelli, della cooperativa Cidas.
Le operatrici trans alla pari vengono dal Mit di Bologna, un’organizzazione nata negli anni ottanta, tra le più importanti e più attive in Italia per i diritti e il riconoscimento delle persone trans. Le strutture di accoglienza portano i nomi delle attiviste del movimento transfemminista globale, come Marielle Franco, bell hooks e Sylvia Rivera. Bologna è stata pioniera in questo tipo di sperimentazione in Italia, ma poi con il tempo altre città hanno aperto strutture simili, tra queste Roma con il Sai Aida gestito dall’Arci e da Be Free, e Torino con un progetto della cooperativa Babel.
Il progetto di Bologna, come tutti quelli previsti dal Sai ordinario, accompagna le persone per al massimo due anni e mezzo e le aiuta a trovare un’autonomia economica e lavorativa. Prevede una stretta collaborazione con i servizi presenti nel territorio, come il Mit di Bologna, ma anche percorsi sanitari pubblici in collaborazione con la Asl e l’ospedale Sant’Orsola.
“Ovviamente qualsiasi richiedente asilo lgbtq+ può essere accolto in strutture del sistema di accoglienza ordinario, anche in quelle per le donne o per gli uomini”, chiarisce Ciccarelli. Ma nelle case di Bologna l’idea è che le persone siano ospitate in luoghi che abbiano un livello più alto di privacy e di protezione.
“Sono spazi dove poter affermare la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale e quindi poter vivere liberamente”, continua Ciccarelli. Tutto è nato nel 2018 quando al Mit di Bologna si sono accorti che molti richiedenti asilo e persone straniere si rivolgevano allo sportello, allora si è arrivati all’idea di queste case per persone trans, lgbt+ e non binarie in collaborazione con l’ex cooperativa Camelot, oggi Cidas, e con il Sai.
“La collaborazione con la asl e con l’ospedale ci garantisce l’accesso alla presa in carico endocrinologica e psicologica dei richiedenti asilo, che sono due passaggi necessari per avere la perizia e rettificare i dati anagrafici, quindi per accedere eventualmente all’intervento chirurgico. Poi la cooperazione con il Mit garantisce dei percorsi di formazione sia sui temi sanitari più legati alla transizione sia sull’uscita dal lavoro sessuale con un metodo di riduzione del danno storicamente adottato da questa struttura”, spiega l’operatrice del Cidas.
La riduzione del danno nel contesto del lavoro sessuale si riferisce all’insieme di interventi e politiche per minimizzare i rischi associati alla prostituzione, migliorando la salute, la sicurezza e il benessere delle persone coinvolte. Gli interventi includono l’accesso ai servizi sanitari, sostegno psicologico, informazioni sulla prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili, e azioni per contrastare lo sfruttamento e la violenza.
“Il Mit, inoltre, offre la possibilità di partecipare a dei gruppi di auto-aiuto. Sono molto importanti, perché sono il luogo dove riescono a confrontarsi persone di culture e paesi d’origine diversi. Questo passaggio, questo confronto transculturale è fondamentale”, conclude Ciccarelli.
Bologna ha una lunga tradizione di accoglienza delle persone trans a partire dagli anni settanta, quando diventò una delle città più aperte verso questa comunità. Il Movimento identità trans è un’associazione nata proprio a Bologna nel 1979 e diventata un punto di riferimento importante per la comunità trans italiana. Inizialmente chiamato Movimento italiano transessuali, il Mit si è dedicato da subito alla lotta per il riconoscimento dei diritti e della dignità delle persone transessuali, fino ad arrivare all’approvazione della legge 164 nel 1982, quella che rende possibile il cambio dell’attribuzione di sesso.
È stata la prima legge a disciplinare questo aspetto nell’ordinamento italiano, permettendo la modifica dei dati anagrafici e l’autorizzazione agli interventi chirurgici di affermazione di genere. Una delle prime iniziative del Mit a Bologna è stata l’apertura di un consultorio e di uno sportello di consulenza per le persone trans, un modello poi replicato in tutta Italia.
Una figura chiave del Mit è stata Marcella Di Folco, che nel 1995 è diventata la prima consigliera trans del comune di Bologna, contribuendo in modo significativo alla rappresentanza anche istituzionale del movimento in un momento in cui l’Italia era fanalino di coda in Europa per il riconoscimento dei diritti civili delle minoranze. La stessa carica oggi è di un’altra attivista storica del movimento italiano, Porpora Marcasciano. In un momento in cui le destre globali prendono sempre di più di mira le persone trans e la comunità lgbt+ diventa complicato gestire progetti come questi.
Nel 2024 in Italia ci sono stati 149 casi di violenza o discriminazione contro le persone lgbt+, uno ogni due giorni. “Per una persona trans, lesbica o gay continua a essere molto difficile riuscire ad accedere al lavoro e alla casa. Per questo abbiamo provato negli anni a fare delle azioni di sensibilizzazione nel mondo del lavoro”, spiega Ciccarelli, ma il clima generale non aiuta. “Sopratutto ci sono sempre più ostacoli ideologici e burocratici per i percorsi di transizione e i tempi dell’accoglienza rischiano di essere troppo brevi a volte per permettere un pieno accompagnamento all’autonomia”, conclude l’operatrice, sottolineando che se non si riesce a riconoscere la storia di sopraffazione e violenza di molte persone trans c’è il rischio di infliggere nuove violenze e discriminazioni a queste persone.
“In Colombia sono più gli anni in cui sono stata nascosta che quelli che ho vissuto allo scoperto”, racconta Arianna, una donna trans di origine colombiana ospitata da una delle strutture di accoglienza. “Ho lasciato il mio paese per una questione di sopravvivenza, penso che dai nove anni in poi ho subito qualsiasi violenza. Ho dovuto pagare un prezzo molto caro per essere viva: sono stata violentata, sono entrata in un bordello, sono scappata da mio padre che mi voleva uccidere”, continua Arianna, secondo cui la bellezza può essere pericolosa per una donna trans.
“La grande bellezza mi ha creato grandi problemi”, afferma. L’unico conforto nella sua vita sono state le compagne, le altre. “La cosa più importante per me è che ho incontrato le mie sorelle, le donne trans. Molte di loro sono state uccise, per la violenza patriarcale. Venivano degli squadroni della morte in discoteca in Colombia, uomini che odiavano i gay e le persone trans e le picchiavano”, racconta. “Mi sembra che metà della mia vita l’ho vissuta seppellita e l’altra metà sono risuscitata grazie a questa casa”.
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