La visita negli Stati Uniti di Ahmed al Sharaa, capo della transizione siriana, è un fatto storico per diverse ragioni. Innanzitutto è la prima volta che un presidente siriano visita Washington dall’indipendenza del 1946. Ma soprattutto è la prima volta che un ex esponente di Al Qaeda è ufficialmente invitato alla Casa Bianca, a 24 anni dagli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001.
Senza dubbio si tratta della manovra diplomatica più audace compiuta finora dall’amministrazione Trump, che in questo caso ha dato prova di una sottigliezza inaspettata. La stabilità della Siria è un elemento cruciale a livello regionale e internazionale, a quasi un anno dalla caduta del regime degli Assad (padre e figlio) e dopo tredici anni di una guerra civile con molteplici ramificazioni.
Dalla prospettiva di Washington, è un riavvicinamento sorprendente. L’8 dicembre 2024, quando Al Sharaa ha conquistato il potere in una Damasco abbandonata da Bashar al Assad, il mondo intero si è interrogato sulla figura di un uomo dal passato jihadista. Il suo movimento, Hayat tahrir al Sham, era affiliato ai terroristi di Al Qaeda, con cui Al Sharaa ha rotto nel 2016. Tuttavia l’Onu ha cancellato le sanzioni ancora attive nei confronti del leader siriano solo la settimana scorsa, dopo una richiesta presentata dagli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza.
Anche se Israele e una parte dei politici repubblicani continuano a non fidarsi di Al Sharaa in ragione del suo passato, Donald Trump è stato incoraggiato dai suoi amici sauditi ad avere un atteggiamento più conciliante. È stata Riyadh a organizzare il primo incontro fra Trump e Al Sharaa, in occasione del viaggio nel golfo Persico fatto dal presidente statunitense all’inizio del suo mandato. Gli Stati Uniti hanno scelto di sostenere il nuovo leader, prima discretamente e oggi più alla luce del sole.
Due decisioni
Lo dimostrano due decisioni importanti attese durante la visita di Al Sharaa. In primo luogo la Siria dovrebbe rientrare ufficialmente nella coalizione contro il gruppo Stato islamico (Is), di cui fanno parte una trentina di paesi arabi e occidentali. L’esercito siriano ha già condotto decine di operazioni per contrastare l’inquietante tentativo dell’Is di ricostituire un bastione sul territorio siriano, otto anni dopo la caduta di Raqqa, la capitale del califfato.
La seconda decisione, ancora più significativa, dovrebbe essere l’accordo per la costruzione di una base statunitense vicino all’aeroporto di Damasco, un gesto politico di enorme importanza.
Il messaggio è diretto sia a Israele, che da un anno considera la Siria come un territorio dove il suo esercito può fare quello che vuole (come distruggere le installazioni militari siriane o correre in aiuto delle minoranze druse e beduine minacciate), sia alla Turchia di Erdoğan e alle sue aspirazioni neo-ottomane sulla Siria, mostrate con l’aiuto garantito ai ribelli l’anno scorso.
Gli Stati Uniti si presentano in Siria come garanti di un fragile equilibrio. Per esempio, servirà molto tatto per evitare una frattura tra i curdi protetti dagli statunitensi e il governo centrale di Damasco. O nel caso di attacchi contro le minoranze, come quello recente ai danni dei drusi.
La visita di Al Sharaa a Washington segna il consolidamento di un nuovo ordine sunnita in Medio Oriente ispirato dall’Arabia Saudita a spese dell’influenza dell’Iran sciita. Ma è anche un ostacolo all’egemonia israeliana sognata da Benjamin Netanyahu dopo i suoi successi militari degli ultimi anni. Di sicuro siamo davanti a una svolta nel “nuovo Medio Oriente” che continua a trasformarsi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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