Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2003 nel numero 508 di Internazionale.

Negli ultimi giorni di luglio, il deputato repubblicano del Texas Tom Delay, leader della maggioranza alla camera e comunemente ritenuto uno degli uomini più potenti di Washington, ha espresso le sue opinioni sulla road map e il futuro della pace in Medio Oriente. Delay ha detto di essere contrario all’appoggio dato dall’amministrazione Bush alla road map, e in particolare alla creazione di uno stato palestinese. “Sarebbe uno stato terrorista”, ha detto con enfasi, usando la parola “terrorista” com’è ormai consueto nei discorsi ufficiali statunitensi, cioè senza alcun riguardo al contesto, al significato o a elementi concreti.

Ha poi aggiunto di essere arrivato a queste convinzioni in virtù di quella che ha definito la sua fede di “sionista cristiano”, frase che è sinonimo di adesione non solo a tutto quello che fa Israele, ma anche al diritto teologico dello stato ebraico di continuare ad agire senza preoccuparsi delle conseguenze che dovranno subire alcuni milioni di palestinesi “terroristi”.

Nel sudovest degli Stati Uniti, il numero delle persone che la pensano come Delay è imponente: sono circa 60-70 milioni, e tra loro – è bene ricordarlo – c’è lo stesso George W. Bush, che è anche lui un ispirato cristiano rinato alla fede, secondo cui tutto quanto è scritto nella Bibbia va preso alla lettera. Bush è il loro leader e fa certo affidamento sui loro voti per le elezioni del 2004 (che secondo me non vincerà). Siccome rischia di perdere la presidenza per le sue scelte politiche rovinose in patria e all’estero, Bush, insieme agli strateghi della sua campagna elettorale, sta tentando di guadagnarsi il favore dei cristiani di destra, in particolare nel Midwest.

Nel complesso, quindi, le posizioni della destra cristiana (insieme alle idee e al potere lobbistico del movimento neoconservatore, rabbiosamente filoisraeliano) costituiscono una forza temibile nella politica interna statunitense, cioè nella sfera in cui, ahimè, si svolge il dibattito americano sul Medio Oriente. Non bisogna mai dimenticare che Palestina e Israele sono considerate in America questioni locali e non di politica estera.

Se le esternazioni di Delay fossero semplicemente le opinioni personali di un fanatico religioso oppure le farneticazioni oniriche di un visionario sconclusionato, si potrebbero liquidare rapidamente come sciocchezze. Invece rappresentano un linguaggio del potere che difficilmente trova opposizione in America, dove tanti cittadini credono di essere guidati direttamente da Dio in quello che vedono e credono – e a volte in quello che fanno.

Sembra che il ministro della giustizia John Ashcroft cominci le sue giornate di lavoro in ufficio con una riunione di preghiera collettiva. Bene, la gente ha voglia di pregare e la costituzione garantisce a tutti un’assoluta libertà religiosa. Ma quello che ha detto Delay contro i palestinesi, cioè che formerebbero un intero paese di “terroristi” – nemici dell’umanità, secondo la definizione attualmente in voga a Washington –, ha gravemente ostacolato il loro cammino verso l’autodeterminazione, e ha contribuito a infliggergli ulteriori castighi e sofferenze, e tutto per motivi religiosi.

Ma con quale diritto? Si consideri la disumanità e l’arroganza imperialistica della posizione di Delay: a distanza di diecimila miglia e da una posizione di forza, gente come lui – che della vita reale dei palestinesi arabi ne sa quanto un marziano – può effettivamente delegittimare e ritardare la libertà dei palestinesi, consegnandoli ad altri anni di oppressione e sofferenza, solo perché pensa che siano tutti terroristi e perché glielo suggerisce il suo sionismo cristiano, per il quale né le dimostrazioni né la ragione contano granché. Quindi, oltre alla lobby israeliana degli Stati Uniti – per non parlare del governo israeliano – uomini, donne e bambini palestinesi devono sopportare altri ostacoli e altri blocchi stradali posti sul loro cammino dal congresso degli Stati Uniti.

Insensate astrazioni

Quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Delay non è solo che si tratta di parole irresponsabili, che liquidano in modo disinvolto e incivile (parola assai in voga nella guerra contro il terrorismo), migliaia di persone che non gli hanno fatto alcun torto. Ma anche l’irrealtà allucinatoria che hanno in comune con tanta parte dei discorsi (e della politica) di Washington sul Medio Oriente, gli arabi e l’islam.

Sono state raggiunte nuove vette di astrazione intensa e insensata nel periodo successivo agli eventi dell’11 settembre. L’iperbole – l’espediente cioè di trovare espressioni sempre più eccessive per definire o esagerare una situazione – domina nella sfera pubblica a cominciare, naturalmente, dallo stesso Bush, le cui dichiarazioni metafisiche sul bene e il male, sull’asse del male e la luce dell’onnipotente, e le sue inarrestabili e (se posso dir così) nauseanti esternazioni sui mali del terrorismo hanno condotto i giudizi sulla storia e la società umane a cime mai toccate, e disfunzionali, di polemica pura e immotivata.

Il tutto condito da solenni sermoni ed esortazioni al resto del mondo a essere pragmatico, a evitare l’estremismo, a comportarsi in modo civile e razionale, mentre chi condiziona la politica statunitense può decidere un cambio di regime qua, un’invasione là e la “ri-costruzione” di questo o quel paese: il tutto da lussuosi uffici di Washington con l’aria condizionata. È questo il modo di fissare i parametri di un dibattito civile e di portare avanti i valori democratici e l’idea stessa di democrazia?

Uno dei temi centrali di tutto l’orientalismo, dalla metà del diciannovesimo secolo in poi, è che gli arabi hanno una mentalità e un modo di esprimersi scollegati dalla realtà. Persino molti arabi hanno abboccato a queste fandonie razziste, come se intere lingue nazionali – non solo l’arabo, ma anche il cinese o l’inglese – fossero una rappresentazione diretta della mente di chi le parla.

Il concetto fa parte dello stesso arsenale ideologico usato nell’ottocento per giustificare l’oppressione coloniale: i “negri” non sono in grado di parlare come si deve e quindi, secondo Thomas Carlyle, è bene che restino schiavi. Oppure: la lingua “cinese” è complicata e quindi, secondo Ernest Renan, i cinesi sono gente infida che va sottomessa. E così via. Oggi nessuno prende sul serio idee del genere, tranne quando si tratta degli arabi, dell’arabo o degli arabisti.

L’irrealismo degli arabi

In un saggio scritto anni fa, Francis Fukuyama, il pontefice e filosofo della destra che ha avuto un breve momento di gloria per la sua assurda idea della “fine della storia”, ha dichiarato che il dipartimento di stato faceva bene a disfarsi dei suoi arabisti perché, imparando l’arabo, avevano fatto proprie anche le “fissazioni” degli arabi. Oggi qualsiasi filosofo da strapazzo, compresi guru come Thomas Friedman, rimastica le stesse fandonie e nelle sue definizioni scientifiche aggiunge che una delle tante fissazioni degli arabi è il “mito” che nutrono sul conto di se stessi come popolo.

Secondo autorità del calibro di Friedman e Fouad Ajami, gli arabi infatti non sono che un’accozzaglia di vagabondi, delle tribù con le bandiere che fanno finta di essere una cultura e un popolo. Si potrebbe dire che anche questa è una fissazione da orientalisti, e gode dello stesso status della convinzione sionista che la Palestina fosse deserta, che i palestinesi non fossero affatto lì e che come popolo non contino niente. Della validità di simili tesi non è neanche il caso di discutere, talmente è chiaro che nascono dalla paura e dall’ignoranza.Ma non è tutto.

Gli arabi sono continuamente rimproverati per la loro incapacità di affrontare la realtà, perché preferiscono la retorica ai fatti, perché si crogiolano nell’autocommiserazione e nell’autoesaltazione, invece di descrivere la realtà in modo più serio. L’ultimissima moda è considerare il rapporto pubblicato l’anno scorso dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) come un’espressione “obiettiva” dell’autodenigrazione araba.

Poco importa che quel rapporto sia superficiale e povero di riflessioni come la tesina di uno studente di scienze sociali e sia molto inferiore a decenni di scritti critici arabi, dal tempo di Ibn Khaldun in qua. Macché: il tutto è accantonato, insieme al contesto imperialistico che gli autori del documento ignorano allegramente, forse per meglio dimostrare che il loro pensiero è in linea con il nuovo pragmatismo americano.

Per altri esperti poi, la lingua araba è inesatta e incapace di esprimere le cose con accuratezza. Discorsi del genere sono così ideologicamente meschini che ogni risposta è superflua. Però possiamo farci un’idea di che cosa faccia spuntare idee del genere. Per creare un contrasto istruttivo basta guardare a uno dei grandi successi del pragmatismo americano e vedere come i nostri governanti, le nostre autorità affrontino la realtà in termini sobri e realistici. Spero che l’ironia della faccenda risulti subito evidente.

Il mito del pragmatismo

L’esempio a cui mi riferisco è la pianificazione americana per il dopoguerra in Iraq. Sul Financial Times del 4 agosto c’è un articolo agghiacciante in cui si legge che Douglas Feith e Paul Wolfowitz, due tra i più potenti falchi neoconservatori dell’amministrazione Bush con rapporti straordinariamente stretti con il partito israeliano del Likud, hanno diretto un gruppo di esperti al Pentagono i quali “hanno sempre pensato che il tutto (cioè la guerra e il dopoguerra) non solo sarebbe stato una passeggiata, ma sarebbe durato al massimo due o tre mesi, e alla fine si sarebbe potuta mollare la patata bollente in mano… a Chalabi e al Consiglio nazionale iracheno.

A quel punto, il dipartimento della difesa avrebbe potuto lavarsene le mani e tirarsi fuori in modo rapido e indolore, lasciandosi dietro un Iraq democratico e docile”. La guerra è stata combattuta su queste premesse e l’Iraq è stato occupato militarmente in base a queste tesi imperialistiche assolutamente inverosimili. Inutile ricordare cos’è successo in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.

Un caos spaventoso, dal saccheggio di biblioteche e musei (di cui sono totalmente responsabili i militari americani in quanto potenza occupante) al crollo totale delle infrastrutture del paese, dall’ostilità degli iracheni – che non sono un unico gruppo omogeneo – nei confronti delle forze angloamericane all’insicurezza e la miseria della vita quotidiana, fino alla straordinaria incapacità umana (e sottolineo “umana”) dimostrata da Garner, Bremer e tutti i loro tirapiedi e miliziani nell’affrontare i problemi del dopoguerra in Iraq.

Tutto ciò è un esempio di quel rovinoso falso pragmatismo e realismo del pensiero americano che dovrebbe contrastare in modo stridente con quello di certi pseudo-popoli inferiori come gli arabi, gente piena di fissazioni e che per giunta parla una lingua difettosa. La verità è che la realtà non obbedisce agli ordini delle persone (per quanto potenti), né aderisce necessariamente ad alcuni popoli o mentalità più che ad altri.

La condizione umana è fatta di esperienza e d’interpretazione, e queste non possono mai essere completamente dominate dalla forza: sono anche il patrimonio comune degli esseri umani nel divenire storico. I tremendi errori commessi da Wolfowitz e Leith nascono dall’arroganza con cui hanno sostituito un linguaggio astratto e ignorante a una realtà ben più complessa e refrattaria. I risultati tragici sono ancora sotto gli occhi di tutti. Smettiamo dunque di accettare la demagogia ideologica, che fa della realtà una proprietà esclusiva della potenza americana o delle cosiddette prospettive occidentali.

Il cuore del problema, naturalmente, è l’imperialismo, la missione autoassegnata (e in fin dei conti banale) di liberare il mondo da figuri come Saddam in nome della giustizia e del progresso. Le giustificazioni revisionistiche dell’invasione dell’Iraq e della guerra americana al terrorismo – che sono diventate uno dei prodotti meno graditi che abbiamo importato da un altro impero già fallito in precedenza, quello britannico, e che hanno reso rozzi i ragionamenti e distorto i fatti e la storia con allarmante facilità – sono proclamate da giornalisti britannici espatriati in America che non hanno l’onestà di dire apertamente: “Sì, siamo superiori e ci riserviamo il diritto di dare una lezione agli indigeni ovunque ci sembrino malvagi e arretrati.

E perché abbiamo questo diritto? Ma perché gli indigeni dai capelli crespi, che ben conosciamo dopo aver governato il nostro impero per cinquecento anni (e adesso vogliamo che l’America ci venga dietro), hanno sbagliato tutto: non sanno capire la nostra civiltà superiore, sono assuefatti alla superstizione e al fanatismo, sono tiranni incorreggibili che meritano un castigo, e siamo noi, perbacco, che dobbiamo punirli in nome del progresso e della civiltà”.

Questi frivoli acrobati del giornalismo (che hanno servito tanti padroni da aver perso ogni principio morale) si credono ancora più scaltri quando citano a proprio favore Marx e qualche studioso tedesco, anche se si professano antimarxisti e non conoscono altra lingua o altra scienza che non sia quella inglese. Per quanto lo si voglia indorare, siamo di fronte a puro e semplice razzismo. In realtà il problema è più profondo e interessante di quanto abbiano mai immaginato i polemisti e pubblicisti al servizio della potenza americana.

In tutto il mondo si sta vivendo il dilemma di una rivoluzione del pensiero e del vocabolario in cui i policy maker americani trasformano il neoliberismo e il pragmatismo americano in esempi di norme universali, mentre in realtà – come abbiamo visto nel caso dell’Iraq – si osservano slittamenti e doppiezza di pesi e misure nell’uso di parole come “realismo”, “pragmatismo” e altre, come “laico” o “democrazia”, che dovrebbero essere completamente ripensate e riconsiderate.

La realtà è troppo complessa e multiforme per prestarsi a formule ingenue come “ne deriverebbe un Iraq democratico docile ai nostri voleri”. Un ragionamento del genere non regge alla prova della realtà. Una cultura non può imporre significati all’altra, così come nessuna lingua e nessuna cultura hanno l’esclusiva sul segreto dell’efficienza.

Il significato di democrazia

In quanto arabi, credo, e in quanto americani abbiamo permesso troppo a lungo che un pugno di slogan molto strombazzati su “noi” e “i nostri valori” prendessero il posto della discussione, dell’argomentazione e dello scambio. Uno dei grandi fallimenti della maggioranza degli intellettuali arabi e occidentali è avere accettato, senza discuterli né vagliarli attentamente, termini come laicismo e democrazia, come se tutti sapessero che cosa significavano.

Oggi l’America è il paese con la popolazione carceraria più numerosa della terra e quello che conta più esecuzioni capitali al mondo. Per essere eletto presidente degli Stati Uniti non occorre conquistare il suffragio popolare, ma poter spendere più di duecento milioni di dollari. Cose del genere come fanno a superare la prova della “democrazia liberale”?

Quindi, invece di permettere che i termini del dibattito siano organizzati senza scetticismo attorno a termini abusati come “democrazia” e “liberalismo”, oppure a concetti indiscussi come “terrorismo”, “arretratezza” ed “estremismo”, dovremmo pretendere un dibattito più esigente e più preciso, in cui i termini siano definiti da punti di vista diversi, e sempre inquadrati in circostanze storiche concrete.

Il grande pericolo è che il pensiero “magico” americano alla Wolfowitz-Cheney-Bush sia spacciato per lo standard supremo che tutti i popoli e le lingue devono seguire. Non dobbiamo permettere che accada. Non dobbiamo farci intimorire fino a credere che la potenza di Washington sia così spaventosa e irresistibile. Per quanto riguarda il Medio Oriente, infine, al dibattito devono partecipare alla pari arabi e musulmani e israeliani ed ebrei.

Tutti devono partecipare per non lasciare agli altri il dominio incontrastato su valori, definizioni e culture. Queste cose non sono patrimonio esclusivo di qualche funzionario di Washington e non dipendono dalla responsabilità di qualche leader mediorientale. Il pensiero e l’attività degli esseri umani costituiscono una vasta sfera comune che si crea e si ricrea di continuo, e non c’è arroganza imperiale che possa nasconderlo o negarlo.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2003 nel numero 508 di Internazionale.

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