Jamestown è una cittadina di meno di quattromila abitanti ai piedi della Sierra Nevada, in California, non lontano dal parco di Yosemite. Come tanti posti situati nelle zone interne dello stato, ha vissuto un’epoca gloriosa e poi un declino inesorabile. La sua gloria aveva la forma di pepite d’oro. Viene naturale immaginare come potevano essere le sue strade tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – polverose, brulicanti di operai, animali, forestieri appena arrivati in cerca di fortuna – e come dovevano apparire dall’alto le sue colline squarciate dalle miniere, formichieri sempre in piena attività.
Oggi queste immagini sono lontane ma fino a un certo punto. Girando per le colline ci si può imbattere in un numero insolito di persone che vagano nei boschi o stanno chine sui torrenti, con stivali ai piedi e setacci in mano. Vogliono ritagliarsi un posticino nella “nuova corsa all’oro”.
“Turisti, pensionati e cercatori di tesori hanno invaso le colline”, ha raccontato l’Economist. Il giornalista ha parlato con “Nugget” Nick Prebalick, un uomo che per vivere insegna ai forestieri come cercare l’oro con il setaccio: dieci anni fa guadagnava circa trentamila dollari all’anno, oggi arriva anche a centomila. A far salire la febbre dell’oro è stato naturalmente l’aumento del prezzo del metallo (il 20 ottobre ha raggiunto il record di 4.380 dollari all’oncia, e alcuni analisti pensano che potrebbe raggiungere i cinquemila dollari il prossimo anno).
Ma c’è dell’altro, spiega l’Economist: “Negli ultimi anni la California è stata colpita da forti tempeste invernali, che hanno smosso i depositi auriferi nelle montagne. Quando la neve si scioglie in primavera, pepite e scaglie rotolano lungo i fiumi e si depositano nei letti dei torrenti, dove un minatore fortunato può trovarle”. Tanti infine hanno deciso di provare la fortuna dopo aver visto Gold rush, reality show arrivato alla sedicesima stagione, che segue squadre di minatori che si sfidano per estrarre più oro possibile.
L’espressione “boom dell’oro”, che ultimamente ci siamo abituati a sentire, ha implicazioni molto diverse, più profonde, per gli Stati Uniti. La corsa all’oro della seconda metà dell’ottocento ha contribuito in modo decisivo a renderli il paese che sono oggi: ha trasformato le economie regionali, stimolato grandi movimenti di popolazione, portato alla fondazione di nuove città e influenzato l’espansione territoriale; ha di fatto creato lo stato più ricco, la California, dandogli un potere enorme a livello economico e quindi politico, e questo ha avuto conseguenze a cascata non solo per gli Stati Uniti ma anche per il resto del mondo (e ha fatto tanti danni, all’ambiente, alla salute dei lavoratori e alle comunità native).
Con il passare degli anni il baricentro della corsa all’oro si spostò sempre più verso nord, fino ad arrivare al vastissimo e ostile territorio tra il Canada nordoccidentale e l’Alaska, in quella che è passata alla storia come Klondike gold rush o anche Yukon gold rush (dal nome dei fiumi da cui in appena tre anni, tra il 1896 e il 1899, furono estratte centinaia di tonnellate d’oro). Circa centomila cercatori si misero in viaggio, a piedi e su imbarcazioni di fortuna, per raggiungere i giacimenti auriferi nei dintorni di Dawson City, la città che era diventata il centro della Klondike gold rush. Ma il viaggio durava più di due mesi ed era così estenuante e pericoloso che solo 30mila di loro riuscirono a portarlo a termine. Nella prima ondata c’era un ragazzo robusto e tarchiato che arrivava da San Francisco. Si chiamava Jack London.
London era cresciuto in povertà in una famiglia divisa. A quindici anni era entrato in una banda di pirati specializzati nel furto di ostriche, che rischiavano la vita muovendosi di notte su piccole imbarcazioni nella baia di San Francisco. Era diventato presto un marinaio esperto, oltre che un bevitore e un attaccabrighe nei saloon sul lungomare. A diciassette anni aveva attraversato il Pacifico e risalito il mare di Bering su una nave da caccia alle foche. Aveva lavorato anche sedici ore al giorno in una fabbrica di conserve di Oakland, aveva vagabondato da una costa all’altra sui treni merci, imparando a mendicare e a rubare, aveva trascorso trenta giorni in una prigione di New York ed era diventato un socialista convinto, tutto questo prima dei diciannove anni.
Quando si mise in viaggio verso nord aveva 21 anni. Insieme ad altri cercatori valicò il famigerato passo del Chilkoot, trasportando a spalle quasi un quintale di provviste, costruì una barca di fortuna, percorse laghi, superò rapide e discese per centinaia di miglia lo Yukon prima che il fiume ghiacciasse.
Il Klondike si rivelò un ambiente estremo: freddo mortale, valanghe, malattie, fame e sfinimento uccisero migliaia di uomini. London dovette sopportare temperature di decine di gradi sotto zero, vide imbarcazioni capovolgersi e compagni morire. Stabilitosi per l’inverno lungo il fiume Stewart, visse in una vecchia capanna, scavò invano alla ricerca dell’oro e si prese lo scorbuto, che mise fine alla sua breve carriera di cercatore.
Quel fallimento fu in realtà la sua fortuna, perché lo convinse a dedicarsi al racconto. A Dawson City entrò in contatto con i sourdoughs, i pionieri della corsa all’oro, ascoltò storie di sopravvivenza, fortuna e rovina, osservò il rapporto brutale e allo stesso tempo nobile tra uomini, animali e natura. Un cane possente appartenente ai fratelli Bond ispirò Buck, protagonista del racconto Il richiamo della foresta. Quasi tutte le persone e gli animali incontrati confluirono, trasformati, nella sua narrativa.
Tornato negli Stati Uniti nel 1898, malato e senza un soldo, London cominciò a scrivere ossessivamente. Dopo molti rifiuti, trovò il successo con racconti ambientati nel Nord e nel 1903 pubblicò Il richiamo della foresta, destinato a diventare un classico in tutto il mondo. Tre anni dopo uscì Zanna Bianca e nel 1910 Radiosa aurora, altre due opere ispirate all’esperienza vissuta nei territori del Nord.
Il Klondike non gli aveva dato l’oro ma gli aveva offerto qualcosa di più prezioso e duraturo: la materia prima per la sua scrittura, con cui avrebbe influenzato profondamente la letteratura americana del novecento. Ha scritto Giacomo Papi sul Post: “London non sapeva inventare: ‘L’espressione è molto più facile dell’invenzione’, scrisse in una lettera. Per tutta la vita, ebbe bisogno di caricare la propria scrittura di esperienze reali o tratte dalla cronaca (e per questo fu accusato di plagio), seguendo uno schema fisso: prima vivere, poi scrivere, poi tornare a vivere per scrivere ancora”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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