La mattina del 13 ottobre, alla tribuna della knesset (il parlamento israeliano), Donald Trump si è rivolto ai deputati e ha chiesto la fine dei procedimenti giudiziari per corruzione a carico di Benjamin Netanyahu. I parlamentari della maggioranza di destra ed estrema destra hanno applaudito fragorosamente.

Il giorno prima l’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff aveva potuto constatare che buona parte della popolazione non condivide affatto questo entusiasmo. Quando Witkoff aveva pronunciato il nome di Netanyahu parlando a una folla riunita a Tel Aviv per celebrare la fine del calvario degli ostaggi, aveva scatenato fischi sonori e prolungati, mentre il nome di Trump era stato acclamato.

Questa accoglienza contrastante solleva un problema che ha una certa importanza per il futuro dell’accordo su Gaza: gli israeliani vedranno in Netanyahu l’uomo che ha indebolito l’Iran e i suoi alleati o invece il responsabile del fallimento della sicurezza del 7 ottobre e soprattutto il leader politico che ha imposto un programma illiberale? Il dibattito, interrotto prima della liberazione degli ostaggi, oggi diventa nuovamente possibile all’interno della società israeliana.

E fuori dai confini di Israele quanto peserà tutto questo? Il 13 ottobre c’è stato un incidente significativo. Donald Trump aveva deciso all’ultimo minuto di invitare Netanyahu al vertice su Gaza di Sharm el Sheikh, in Egitto, da cui il primo ministro israeliano era stato inizialmente escluso. Ma il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha minacciato di boicottare il vertice se Netanyahu fosse stato presente. Con il pretesto di una festa religiosa, l’israeliano ha rinunciato.

Israele si è attirato una diffusa ostilità per la brutalità della sua guerra nella Striscia di Gaza che ha provocato più di sessantamila morti, compresi migliaia di bambini. Agli occhi del mondo, oggi Netanyahu incarna questa scelta militare spietata. Gli stessi israeliani ringraziano Trump del ritorno a casa degli ostaggi e non Netanyahu, che avrebbe continuato la guerra se Washington non avesse forzato la mano per un cessate il fuoco.

Missione impossibile

Con o senza Netanyahu, Israele cercherà di ricostruire i suoi rapporti internazionali. Ma sarà una missione impossibile senza cambiare il primo ministro, su cui tra l’altro pende un mandato d’arresto della Corte penale internazionale.

Quali sono i rischi politici per Netanyahu? Questo è il grande interrogativo del dopoguerra. La sua popolarità ha fluttuato nel corso degli ultimi due anni, seguendo gli sviluppi della crisi. L’ultimo sondaggio, pubblicato la settimana scorsa, lo dava testa a testa con l’opposizione in caso di elezioni, ma era prima di questa fase della guerra e soprattutto prima della liberazione degli ostaggi.

La realtà è che Netanyahu è un politico abile e strategico, capace di risorgere continuamente dalle sue ceneri come una fenice. Lo dimostra il fatto che si presenta come il vincitore del momento nonostante sia stato comandato e perfino umiliato da Donald Trump, che lo ha costretto a scusarsi con il Qatar per il bombardamento di Doha.

Fino a quando Netanyahu e la sua coalizione resteranno al potere non ci sarà un vero processo di pace con i palestinesi né un percorso verso la soluzione dei due stati né la fine dell’avanzata dei coloni. Ma sono gli israeliani che dovranno decidere la sua sorte. Il 13 ottobre è stato di fatto il primo giorno della campagna elettorale per le prossime elezioni, anche se ancora non se ne conosce la data.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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