Se gli Stati Uniti lo vogliono… o meglio, se Donald Trump lo vuole, tutto è possibile. È la lezione principale dell’accordo concluso nella notte in Egitto sulla prima fase del piano per Gaza. Perché è proprio questo che è successo durante le trattative: l’intesa non è il risultato di un compromesso tra le parti in conflitto – Israele e il movimento palestinese Hamas – ma della volontà statunitense sostenuta dai mediatori regionali, Qatar, Egitto e Turchia. C’è da chiedersi perché questa determinazione non sia stata esercitata prima, per mettere fine alla tragedia dei civili di Gaza, durata due anni.

A questo punto l’accordo consentirà almeno di voltare pagina sul calvario degli ostaggi israeliani. Nei prossimi giorni, i 48 ostaggi, vivi o morti, saranno liberati da Hamas e dalle altre organizzazioni palestinesi che li tengono prigionieri, e restituiti alle loro famiglie. Hanno trascorso due anni in condizioni terribili, da quando sono stati catturati durante la strage del 7 ottobre 2023: prendere in ostaggio i civili, non va dimenticato, è un crimine di guerra.

Questa liberazione libera a sua volta gli israeliani da un blocco psicologico che impediva tutto il resto; permetterà di pensare a un “dopo”. Finora gli israeliani hanno evitato di farsi domande sulla strategia del loro governo a Gaza, sul dopoguerra nei territori palestinesi o sulle responsabilità del primo ministro Benyamin Netanyahu negli errori che hanno permesso gli attentati del 7 ottobre.

Una parte della popolazione israeliana ha contestato apertamente, nelle strade, la strategia del primo ministro, che non ha mai dato la priorità alla liberazione degli ostaggi; a volte le manifestazioni hanno sollevato questioni più politiche sulla guerra a Gaza, ma il blocco sugli ostaggi limitava l’orizzonte.

Sul fronte palestinese, la situazione è ancora più complessa. Hamas ha dovuto cedere, costretto dai suoi interlocutori regionali, in particolare il Qatar e la Turchia. E ora, senza lo “scudo” degli ostaggi, si troverà esposto. Certo, potrà rivendicare la liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane in cambio degli ostaggi, e la sospensione – almeno temporanea – dei bombardamenti israeliani che hanno reso un inferno la vita di due milioni di civili. Ma il seguito è incerto.

Pressioni esterne

Se anche la prima fase dell’accordo fosse attuata, quello che verrà dopo resta un cantiere aperto. Il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è irrealistico e fragile. È improbabile che si possa negoziare con la stessa rapidità ed efficacia di questa prima fase, che dipendeva soprattutto dalle pressioni esercitate sulle parti in conflitto.

Il disarmo di Hamas, la creazione di un’amministrazione provvisoria a Gaza composta da tecnocrati palestinesi e da un’autorità esterna, con Tony Blair nel ruolo di “viceré di Gaza”… è tutto complicato e difficilmente realizzabile.

Il seguito è ancora una volta nelle mani di Trump, in un mondo tornato a essere dominato dai rapporti di forza. Manterrà la stessa determinazione per portare a termine un accordo o lascerà che prevalga la tendenza naturale al logoramento della crisi o addirittura alla ripresa della guerra?

Non esiste, né all’interno della coalizione di Netanyahu – minacciata dall’implosione – né in seno ad Hamas – indebolito ma ancora attivo – una reale volontà di compromesso. Solo le pressioni esterne possono esercitare un’influenza: è la forza e al tempo stesso la fragilità di questo momento, nonostante tutto un momento storico.

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