Pochi giorni dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre 2023, Joe Biden, all’epoca presidente degli Stati Uniti, aveva visitato Israele per portare la sua solidarietà e aveva dato un consiglio agli israeliani: “Vi invito a non farvi consumare dalla rabbia che provate. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti erano infuriati. Abbiamo cercato giustizia e l’abbiamo trovata, ma abbiamo anche commesso errori”. Chiamarli “errori” è un eufemismo: vent’anni di guerra in Afghanistan e Iraq, per nulla.
Israele, evidentemente, non ha seguito il consiglio di Biden, lanciandosi a sua volta in guerre senza fine a Gaza e nel resto della regione. Tel Aviv ha vinto le battaglie militari grazie alla sua potenza senza pari in Medio Oriente, ma ha perso la battaglia morale a causa della sua risposta sanguinaria, alimentata dalla sete di vendetta. Anche per questo, oggi si trova davanti a scelte difficili.
Il secondo anniversario del peggior attacco terroristico subìto da Israele nella sua storia ha un gusto amaro che convive con la speranza di chiudere la dolorosa pagina degli ostaggi. Gli israeliani non hanno ancora superato il trauma del 7 ottobre: due anni di guerra non hanno permesso di elaborare il lutto di 1.200 vittime né di chiudere i conti politici della terribile falla nella sicurezza dello stato.
Benjamin Netanyahu cerca in ogni modo di garantirsi una sopravvivenza politica e mantiene il paese in uno stato di guerra costante che impedisce qualsiasi dibattito nazionale sereno. Negli ultimi due anni il primo ministro israeliano ha rischiato più di una volta di perdere del tutto il sostegno dell’opinione pubblica, ma in ogni occasione ha reagito alzando la posta. Come la fenice, ha saputo risorgere e ottenere dei successi, come colpire Hezbollah e bombardare l’Iran, incassando l’approvazione degli israeliani.
La principale debolezza di Netanyahu, ormai evidente, è la sua mancanza di un piano per un “dopoguerra” che prima o poi arriverà. Il primo ministro deve navigare tra i suoi alleati di estrema destra, che sognano la pulizia etnica e la colonizzazione, e gli umori mutevoli dell’alleato statunitense Donald Trump.
Netanyahu ha cavalcato il momento “Riviera” del presidente americano, pur sapendo benissimo che si trattava di un delirio. E oggi si ritrova spalle al muro, perché Trump gli impone un piano che non prevede la partenza dei palestinesi da Gaza.
Le opinioni cambiano
Il momento di trarre delle lezioni non è ancora arrivato, perché è sempre difficile farlo nel mezzo dell’azione, e questo vale anche per Israele. Come gli Stati Uniti dopo l’11 settembre, i leader israeliani, in sintonia con la popolazione, hanno cercato la vendetta e la dimostrazione di forza. Negli ultimi due anni, però, l’opinione pubblica è cambiata, e continuerà a evolversi se la guerra si fermerà e gli ostaggi saranno rilasciati.
A quel punto arriverà il momento di scegliere: Israele vuole basare la sua sicurezza unicamente sulla forza imposta ai vicini, palestinesi e arabi? O farebbe meglio a cercare un equilibrio tra la sicurezza dello stato e la giustizia per i palestinesi?
In Israele questo dibattito si è già svolto trent’anni fa, all’epoca degli accordi di Oslo, che purtroppo hanno fallito. L’assenza di una soluzione per tre decenni ha prodotto la catastrofe del 7 ottobre. Gli stessi interrogativi sono validi ancora oggi, ma in un contesto molto più tragico.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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