Ecco a voi il piano di Trump per Gaza! Dimenticatevi la Riviera e i suoi grattacieli futuristi immaginati dal presidente degli Stati Uniti all’inizio dell’anno. Il 29 settembre, a Washington, l’amministrazione statunitense ha presentato un nuovo piano, in venti punti. Ma davvero è realista ed equo? Riuscirà a mettere fine alla tragedia che dura da quasi due anni in questo piccolo territorio?
Per crederci bisognerebbe essere davvero ottimisti. Tanto per cominciare, il piano è abbastanza lontano dal testo franco-saudita adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, anche se il ministro degli esteri francese Jean-Noël Barrot ha dichiarato in giornata che il progetto è “largamente ispirato” alle proposte di Parigi, effettivamente citate nel punto numero 9 del piano statunitense.
Certo, i venti punti non corrispondono nemmeno alla visione radicale del governo israeliano, ma una frase inquietante del presidente americano, in sintonia con Benjamin Netanyahu che stava al suo fianco, lascia intravedere un finale agghiacciante: se Hamas rifiuterà il piano, Trump ha promesso che Israele avrà “il sostegno totale degli Stati Uniti” per proseguire la sua guerra.
Quali sono le reali possibilità che il piano venga messo in pratica? Al momento sembrano piuttosto deboli, perché è difficile immaginare che i palestinesi (e non solo Hamas) possano accettare un piano che prevede di affidare la gestione della Striscia di Gaza a Donald Trump in persona e all’ex primo ministro britannico Tony Blair. Il ritorno dell’Autorità palestinese, che nel piano franco-saudita avrebbe dovuto assumere il controllo di Gaza, è invece rinviato alle calende greche.
Washington ha fatto alcune concessioni ai leader arabi che hanno incontrato Trump la settimana scorsa: nessuna annessione dei Territori palestinesi come minacciava Israele e nessuna espulsione dei palestinesi, anche se l’autorità di transizione avrà il diritto di assegnare i “permessi di uscita”.
La concessione a Israele, invece, è che non ci sarà una data per l’uscita dell’esercito israeliano da Gaza, mentre il cessate il fuoco negoziato a gennaio prevedeva una scadenza.
Attore o mediatore?
Trump è un attore o solo un mediatore? È questo che bisogna chiedersi. Con questo piano in venti punti, si presenta come un “intermediario in buona fede”, ma è innegabile che in sette mesi al potere ha autorizzato tutte le escalation di Israele: la ripresa degli attacchi a Gaza a marzo, i bombardamenti in Iran a giugno e perfino l’attacco contro il Qatar a settembre.
Tutti i paesi della regione sono convinti che Trump potrebbe fermare il conflitto immediatamente, se solo lo volesse. Questo piano, invece, prolunga la guerra senza alcun motivo. Esattamente ciò che vuole il primo ministro israeliano.
Sarebbe bello credere che il piano statunitense possa accelerare la fine di questa crisi, ma è troppo traballante e unilaterale per risultare credibile. E anche se dovesse essere avviato, ci sono poche probabilità che possa sfociare nella soluzione politica promessa dai dibattiti alle Nazioni Unite della settimana scorsa sul riconoscimento della Palestina. Siamo tornati alla realtà dei rapporti di forza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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