Quando la libertà d’espressione viene limitata in nome della libertà d’espressione, non c’è da fidarsi. La vicenda di Jimmy Kimmel è il sintomo di una minaccia che incombe sugli Stati Uniti. Kimmel è un comico che da anni presenta il late night show dell’emittente ABC, una delle trasmissioni serali più popolari nel paese. La Abc, che appartiene al gruppo Disney, ha annunciato la sospensione a tempo indeterminato del programma dopo i commenti di Kimmel a proposito dell’uccisione dell’influencer conservatore Charlie Kirk.
Cosa ha detto Kimmel di così terribile? Non si è rallegrato dell’omicidio (che ha definito “insensato”) né ha offeso la memoria di Kirk, ma accusato Donald Trump e la sua “gang” di aver approfittato della morte di Kirk per attaccare la sinistra senza nessuna prova. È un’affermazione innocua e difficilmente contestabile. È quello che ho sostenuto anch’io, fortunatamente su France Inter e non su una tv statunitense.
Il clima politico si sta facendo inquietante. Brendan Carr, nominato da Trump a capo della Federal communications commission (Fcc), l’equivalente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) italiana, ha criticato le parole di Kimmel minacciando di imporre sanzioni contro chi le diffonde. Negli Stati Uniti centinaia di tv locali ritrasmettono i programmi delle grandi emittenti, ed è proprio il fatto che queste stazioni si sono tirate indietro ad aver spinto la Abc a prendere la sua decisione.
È una vicenda grave, perché ci sono state chiaramente pressioni di un rappresentante del governo su un’emittente privata, senza neanche un’azione legale. Basti pensare alla reazione di Trump sul suo social media Truth: si è felicitato per la decisione della Abc, definendola una “grande notizia per l’America”. L’aveva fatto anche dopo la decisione della Nbc di interrompere il late show di Stephen Colbert, un altro presentatore molto popolare ed estremamente critico verso Trump. Nel suo ultimo tweet, il presidente statunitense ha preso di mira altri due programmi serali di cui vorrebbe sbarazzarsi, ovviamente sempre in nome della libertà d’espressione.
Nella stessa settimana, Trump ha denunciato il New York Times accusandolo di diffondere notizie false per danneggiare la sua amministrazione e chiedendo un risarcimento di 15 miliardi di dollari. A luglio aveva fatto causa al Wall Street Journal per 10 miliardi. Non vincerà mai queste cause, ma sono un’intimidazione.
Svolta autoritaria
Infine, sempre in questi giorni, Trump ha attaccato un giornalista australiano che gli aveva fatto una domanda provocatoria sul confine labile tra il suo ruolo istituzionale e i suoi interessi privati. La risposta è stata significativa: il presidente ha dichiarato che il giornalista faceva un torto all’Australia, cioè ha negato la sua indipendenza. Quindi ha ritirato alla sua emittente l’accredito per la conferenza stampa di Londra del 18 settembre.
Tutto questo è preoccupante, soprattutto perché parliamo del paese in cui la libertà d’espressione è intesa nel modo più ampio al mondo, garantito dalla costituzione. In passato Trump si era impegnato a difendere questa libertà, che secondo lui era minacciata dalla cosiddetta cancel culture della sinistra, ma evidentemente sta andando nella direzione opposta.
Il 18 settembre Andrei Soldatov, giornalista russo in esilio in Europa, ha scritto su X che gli Stati Uniti di Trump gli ricordano la svolta autoritaria di Putin dopo il suo arrivo al potere. La libertà d’espressione, la conosce bene chi l’ha perduta.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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