Negli ultimi mesi qualcuno potrebbe aver avuto l’impressione che nei notiziari e in un mondo in preda al caos ci fosse solo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Invece la Cina torna al centro delle grandi manovre di ricomposizione degli equilibri mondiali.
Due eventi in programma questa settimana nel paese asiatico lo evidenziano in modo spettacolare, con un sapore di sfida verso Trump, che nel frattempo continua a comportarsi come il padrone del mondo. La lista dei partecipanti è significativa: il presidente russo Vladimir Putin, ospite d’onore ai due eventi durante una visita di quattro giorni in Cina; il primo ministro indiano Narendra Modi, spinto tra le braccia di Pechino dai dazi proibitivi imposti da Trump; il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, impegnato in un braccio di ferro sul nucleare con gli occidentali; e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che non esce spesso dal suo regno isolato. E questi sono solo i più importanti.
Il primo evento, dal 31 agosto al 1 settembre a Tientsin, vicino a Pechino, è il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, una struttura di sicurezza regionale sponsorizzata da Cina e Russia. Il secondo, invece, sarà una importante parata militare per ricordare l’ottantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Cina.
L’obiettivo principale dei due eventi è mostrare che il mondo non gira necessariamente intorno a Donald Trump. Pechino, in modo sicuramente esagerato, si presenta come leader del mondo non occidentale. Il numero uno cinese Xi Jinping vuole approfittare dell’occasione offerta dalla brutalità di Trump, che nei suoi rapporti con il mondo non ha amici né nemici, ma solo interessi da difendere.
La Cina si propone prima di tutto come paese del sud globale – nome con cui si indica oggi il mondo in via di sviluppo – anche se ha un ruolo di primo piano nell’economia del pianeta. Sostiene di rappresentare un modello virtuoso e rispettoso della sovranità degli stati (tranne nel mar Cinese Meridionale, che considera il suo cortile di casa), un modello sulla carta diametralmente opposto a quello di Washington.
La potenza del sacrificio
Il secondo obiettivo è uno sfoggio di potenza, simboleggiata dalla parata del 3 settembre sul viale della “pace eterna” di Pechino, che metterà in scena la modernità dell’esercito popolare di liberazione. L’ondata di propaganda per l’occasione mette in risalto l’idea di sacrificio piuttosto che quella della sottomissione. Inutile dire a chi è rivolta.
Si può dire che ormai esiste un “blocco cinese”? Forse sarebbe esagerato parlare di “blocco” nel senso in cui lo intendevamo ai tempi della guerra fredda con l’Unione Sovietica, perché non è così che ragiona Pechino. Gli analisti annunciano da tempo la comparsa di una frattura tra Putin e la Cina, ma i quattro giorni che il presidente russo trascorrerà al fianco di Xi ne sono l’ennesima smentita. Il mese scorso Putin ha visitato Trump in Alaska, ma allo stesso tempo si fa vedere volentieri insieme al numero uno cinese per assistere alla parata dell’esercito che sfida gli Stati Uniti in Asia.
La presenza più rilevante è chiaramente quella del primo ministro indiano, perché New Delhi ha un rapporto molto difficile con Pechino. Evidentemente nell’arco di poche settimane Trump è stato capace di distruggere trent’anni di paziente lavoro della diplomazia statunitense per costruire un’alleanza con l’India.
Gli indiani sono profondamente irritati dai dazi del 50 per cento imposti da Washington, e la presenza di Modi al vertice di Tientsin non è tanto un cambiamento di alleanze, quanto il segno che nel mondo di oggi non si può dare nulla per scontato. A tutto vantaggio di Xi Jinping, che di questo può senz’altro ringraziare Donald Trump.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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