Da un lato ci sono gli eventi in corso in California, dall’altro la sua rappresentazione. E non è affatto la stessa cosa. L’invio della guardia nazionale e dei marines a Los Angeles, deciso da Donald Trump, ha creato uno scontro politico inasprito dai social network e dall’intelligenza artificiale. Oggi questa deriva è inevitabile, anche perché la posta in gioco, più che il controllo del territorio, è il cervello di milioni di cittadini-spettatori.
Da quando Trump ha deciso di passare all’azione, mentre le squadre dell’Ice (l’agenzia per il controllo delle frontiere) affrontavano la rabbia della popolazione per le loro retate contro gli immigrati irregolari, la battaglia è stata dominata dalle immagini e dai simboli. È una delle espressioni della guerra culturale in corso negli Stati Uniti.
Lo scontro si è immediatamente personalizzato: su un fronte abbiamo Trump, che si presenta come un duro, il salvatore dell’America profonda; sull’altro Gavin Newsom, il governatore della California che interpreta il ruolo del difensore della “democrazia in pericolo”, come ha dichiarato martedì. Newsom, nel frattempo, è diventato anche il paladino di un Partito democratico in crisi e alla ricerca di un eroe in vista delle presidenziali del 2028.
A rischio di apparire cinico, vorrei sottolineare che questa è la vera battaglia che si nasconde dietro i fatti di questi giorni. Trump si è precipitato sulle rivolte di Los Angeles perché le considera un pretesto per distogliere l’attenzione dai suoi fallimenti e per sfruttare uno dei rari casi in cui conserva il sostegno della maggior parte degli statunitensi.
Il presidente vuole prendere due piccioni con una fava: oltre a mostrarsi inflessibile rispetto ai migranti irregolari che ha demonizzato lungo tutto il corso della sua campagna elettorale (come dimenticare gli haitiani accusati di mangiare cani e gatti), punta l’indice contro i democratici “lassisti” che non sarebbero veri patrioti.
Per Trump è un terreno di scontro ideale, anche se i migranti colpiti dall’Ice non sono solo i criminali tatuati delle gang ma anche i lavoratori che spesso vivono nel paese da decenni. La disinformazione entra in gioco per consolidare una narrazione favorevole al presidente.
Negli ultimi giorni negli Stati Uniti i social network sono stati inondati da immagini drammatiche, spesso false. Come la foto dei cumuli di mattoni che dovevano provare la premeditazione dei rivoltosi ma che in realtà è stata scattata altrove, o le scene di violenza palesemente tratte da film hollywoodiani.
La disinformazione è rafforzata dall’irruzione dell’intelligenza artificiale e dei suoi errori, chiamati anche “allucinazioni”. David Colon, autore di un libro sulla “guerra dell’informazione”, fa notare che i large language model, modelli linguistici di grandi dimensioni, non dovrebbero mai essere usati per verificare le informazioni. “Sono pappagalli stocastici”, ha spiegato Colon, e dunque sono un rischio.
L’informazione e la disinformazione sono il tema centrale del 2025, soprattutto quando la posta in gioco politica è così alta. Questa deriva è difficile da contrastare e impossibile da ignorare. Il laboratorio statunitense anticipa le battaglie dell’informazione che si combatteranno in futuro anche nel resto del mondo, con una tecnologia capace di sbiadire la linea che separa il vero dal falso. Pensateci, la prossima volta che vedrete un’immagine “proveniente” dalla California.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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