Avreste mai immaginato che il Lazio e la Maremma toscana ospitassero così tanti evocativi paesaggi perfetti per un western? Dopo la presentazione a Cannes, con due interpreti importanti come Alessandro Borghi e John C. Reilly, arriva in sala un film di notevole originalità e freschezza, espressione del rinnovo del cinema d’autore italiano, fino ad alcuni anni fa terribilmente stantio e di maniera, che da qualche tempo interessa anche la critica cinematografica internazionale. La coppia Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi, qui al loro secondo lungometraggio, con Testa o croce? firmano uno spaghetti western sperimentale, poetico e pervaso da una divertente vena surreale. Ma che contiene al suo interno molti più spaghetti del consueto.
Nel senso che si svolge per intero sul territorio italiano, dov’è girato. Allo stesso tempo, come affermano gli autori nelle note di regia, siamo ben lontani dal western “polveroso”, come quello di Sergio Leone e di altri registi del genere. Siamo piuttosto in quello “fangoso”, anche se per la verità è costellato di paesaggi romantici campagnoli, spesso al tramonto, che ci avvolgono e ammaliano.
Quante paludi, quanti acquitrini, quanti punti desertici e quanta natura lussureggiante ci sono sotto ai nostri occhi, anche se non lo sapevamo. I due cineasti effettuano così una prima rivoluzione, un primo rovesciamento dei nostri canoni concettuali, così come del vedere (e come lo stesso spaghetti western fece a suo tempo). Quello di (ri)allestire una geografia dei luoghi e di stimolare una nuova purezza dello sguardo, troppo inquinato da immagini sature, dov’è impossibile scavare.
Siamo negli anni immediatamente successivi al risorgimento. Le truppe del re sono quasi truppe d’occupazione che impoveriscono e opprimono gente già povera e oppressa. Siamo anche nell’epoca in cui fiorisce il brigantaggio e in cui – è meno noto – Buffalo Bill venne in Italia in tour con la sua troupe fatta di veri nativi e di teatranti, e dove già – fordianamente – si preferiva “stampare la leggenda”, se era migliore della realtà. Solo che qui è innanzitutto orale, invece che stampata, disegnata o filmata.
Rosa (Nadia Tereszkiewicz), una giovane e bellissima ragazza dagli occhi dolci ma intelligenti, è colpita da Santino (Alessandro Borghi), un giovane cowboy italiano, anzi un “buttero”, come sono chiamati nel film. Un chiaro rimando al Lazio: i butteri sono i mandriani per antonomasia della campagna romana, dell’agro pontino come della Maremma.
Santino osa resistere al marito di Rosa, un borioso e cinico ufficiale dell’esercito di origine aristocratica, domando il cavallo e facendo perdere la scommessa all’ufficiale che ha puntato tutto sui cowboy del Wild west show di Buffalo Bill. Vengono entrambi picchiati dall’alto ufficiale, ma lei gli spara e lo uccide. Lui la afferra e scappano insieme a cavallo. Senza pensarci, d’istinto. Sarà l’inizio di una lunga peregrinazione, piena di cambi di luoghi, di paesaggi, capovolgimenti e colpi di scena. Inseguiti dalla polizia, da una taglia (come in tutti i buoni western) e dallo stesso Buffalo Bill (John C. Reilly).
Iscriviti a Schermi |
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Schermi
|
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
Iscriviti |
La fuga è una lunga corsa a cavallo, filmata lateralmente. Sembra di essere nella pittura romantica tedesca di Caspar David Friedrich, un quadro da contemplare più volte, ma un quadro in movimento. Subito dopo siamo in quella inglese, nei rossori di un William Turner, ma è evidente anche il richiamo al western e a tutto il cinema umanistico e romantico statunitense degli anni settanta. In altri momenti ancora si pensa alla pittura di un Giovanni Fattori.
Nel raccontare la storia di una giovane spudorata e ardita, candida e intelligente, si costruisce un notevole personaggio femminile, nascosto negli anfratti della storia, dove tutti i punti di riferimento assodati sono sconvolti, come pure gli stereotipi: la leggenda del rivoluzionario è creata ad arte, un’impostura; l’eroe, pur essendo un buono e non privo di ardore, è fatto a pezzi.
In questa parabola morale sulla verità e (le molteplici) bugie della Storia con la S maiuscola e sulle (micro)storie, i due cineasti, grandi amanti del racconto orale, filmano quel piccolo mondo locale, a metà tra etnologia e documentario storico che avevano messo al centro del loro cortometraggio, poi del loro lavoro documentario e infine del lungometraggio d’esordio, Re Granchio, che aveva una prima parte, dolce, nella campagna della Tuscia viterbese e una seconda, aspra, un western degli antipodi alla Werner Herzog. Ma qui la seconda parte è sia aspra sia dolcemente surreale e sognante. E sempre ambientata in Italia.
Testa o croce? in verità è il perfetto paradigma di un cinema di autori che più parlano del particolare, del locale, e più lavorano sull’universale; e che più lavorano sull’eterogeneità visiva (quasi la metafora in chiave formale del caos in cui viviamo, contraddistinto dalla crisi climatica, dai grandi flussi migratori, dai rifugiati) e più la forma-film (speculare, anzi osmotica, ai contenuti che veicola) si (tras)muta in un nuovo ordine positivo. In un nuovo tessuto possibile, in un nuovo organismo potenziale. Il tutto per creare un corpus visivo realmente rinnovato, da cui partire per i prossimi anni e del quale il cinema sembra avere un gran bisogno.
Poiché è praticamente una questione alchemica quella che si pone un’ampia parte del nuovo cinema italiano, di cui Zoppis e Rigo de Righi fanno pienamente parte: fare della babele di immagini come delle etnie, dell’eterogeneità visiva e culturale, un nuovo tessuto, fare una nuova omogeneità con l’eterogeneità. Sono film leggeri come una nuvola o un sogno, pur essendo stratificati nella memoria, anzi nelle memorie (degli archetipi, della pittura, del cinema, dei materiali di repertorio, ecc.).
Così come un Pietro Marcello che rievoca con Duse un passato vicino e lontano, trasformando in pittura delle immagini che, a loro volta, rimandano alla storia del cinema, insieme a delle immagini di repertorio che si fondono con il tutto. Oppure quando realizza un (molto) libero adattamento di Martin Eden (2019) di Jack London in terra campana, o prima ancora un film alchemico per definizione come Bella e perduta (2015), girato per intero con pellicola scaduta. O un’Alice Rohrwacher, che con La chimera (2023) – film peraltro basato su un’idea di Pietro Marcello – ci racconta di un mondo sommerso, quello dell’antica etruria, facendo denuncia del presente attraverso un inglese come attore protagonista (Josh O’Connor) e, ancora una volta, con una forma-film che si nutre, con un’intensità di rara delicatezza, del passato, e in particolare del mondo arcaico.
O ancora Maura Delpero che con Vermiglio (2024) realizza una sorta di versione teutonica di L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, in una forma quasi rovesciata ma senza scivolare mai nella vera freddezza, o tantomeno in qualcosa di inumano, e in cui sono presenti i semi di un’altra memoria stratificata, quella del cinema, così come quella socioantropologica. Oppure come nel cinema documentario di Gianfranco Rosi, con l’ultimo magnifico film su Napoli, si rovesciano tutti i punti di riferimento consolidati e stereotipati sulla città e si rievoca, anche qui, una memoria stratificata andata perduta in un film onirico e di denuncia sul tessuto sociale del presente. E così è per altri registi che qui citiamo velocemente, come Michelangelo Frammartino o Giorgio Diritti.
Tutti loro dislocano quello che raccontano in maniera “altra”. In altri luoghi, che sono però adattissimi, come se fossero i luoghi tradizionali di un genere o di un’epoca; oppure ancora in maniera rovesciata e insieme complementare a come lo si era già raccontato.
Facendo fruttare quella diversità caotica che oggi ci circonda come un patrimonio e come possibile rinascita e che, al contrario, tanto spinge la destra di Salvini e Meloni a premere al massimo sul pedale della paura. Questa è la vera storia d’Italia: altrimenti non avremmo mai avuto il rinascimento e tutto il resto, ma soltanto orologi a cucù come la Svizzera, per riprendere la celebre battuta di Orson Welles in Il terzo uomo di Carol Reed.
Passato e presente diventano così l’alba di un nuovo futuro, proprio come in Testa o croce?, dove eppure fioriscono tanti tramonti in una meraviglia continua.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it