La notizia della prima morte da covid-19 nell’impianto per la macellazione del pollame dell’azienda Tyson Food a Camilla, in Georgia, si è diffusa molto lentamente. “Era come se stessero mantenendo un segreto”, racconta Tara Williams, una lavoratrice di 47 anni, descrivendo la risposta dei dirigenti alla morte della sua collega Elose Willis. “Ci hanno messo due settimane prima di appendere la sua foto nello stabilimento e di ammettere che era morta”.
Williams ha lavorato con Willis al reparto “disossamento” fino alla morte della collega, il 1 aprile. Willis aveva 56 anni e aveva trascorso gli ultimi 35 anni in quella fabbrica, cinque giorni alla settimana, dieci ore al giorno, macellando centomila polli per turno. È stata la prima dipendente dello stabilimento di Camilla a morire di covid-19. Poco dopo la stessa sorte è toccata ad altre due colleghe, segno evidente dei rischi che corrono migliaia di lavoratori e lavoratrici dell’industria della carne, costretti a turni massacranti in impianti affollati che sono rapidamente diventati i principali luoghi di diffusione del virus negli Stati Uniti. Secondo i sindacati, nel paese almeno venti dipendenti del settore della macellazione sono morti dopo aver contratto il Sars-cov-2, con cinquemila casi di contagio. Nelle ultime settimane oltre venti stabilimenti sono stati chiusi (alcuni solo temporaneamente).
Dai racconti dei lavoratori degli stabilimenti in Georgia, Arkansas e Mississippi emerge una tendenza chiara fatta di negligenza, segretezza e cattiva gestione in strutture appartenenti ad alcuni dei grandi colossi alimentari statunitensi. Il 28 aprile l’industria che produce carne di pollo, già al centro di una causa civile in cui è accusata di aver sistematicamente sottopagato una manodopera composta soprattutto da immigrati, neri e ispanici, ha potuto beneficiare di un ordine esecutivo emanato da Donald Trump.
Per tenere aperti gli stabilimenti per la macellazione della carne durante la pandemia, il presidente ha invocato il Defense production act (Dpa), una legge approvata ai tempi della guerra di Corea che costringe le aziende a portare avanti le attività ritenute necessarie per la sicurezza nazionale. In precedenza la Casa Bianca aveva esitato prima di ricorrere a questa legge. Il Dpa è stato usato per obbligare la General Motors a produrre respiratori artificiali, ma poche altre compagnie avevano ricevuto ordini simili.
La verità
La decisione di Trump, che nella sostanza definisce essenziale la produzione della carne, protegge ulteriormente l’industria dalle responsabilità giuridiche in caso di contagio dei lavoratori. Il decreto è arrivato poche ore dopo che la Tyson – azienda con un valore di 22 miliardi di dollari e seconda al mondo nella macellazione della carne – aveva pubblicato una serie di annunci a pagamento in alcuni grandi quotidiani nazionali, tra cui il New York Times, per comunicare che la recente chiusura degli impianti a causa del virus avrebbe potuto “limitare la fornitura dei prodotti”.
Secondo Tara Williams, che da cinque anni svolge il turno di notte nello stabilimento di Camilla per 13,55 dollari all’ora, l’ordine esecutivo di Trump e gli annunci della Tyson rappresentano un duro colpo nella lotta per i diritti dei lavoratori. “Sono sconvolta e ferita. La verità, e scusate il mio linguaggio, è che adesso alla Tyson non fregherà un cazzo di tutti noi. I dipendenti che lavorano nella produzione vengono trattati come schiavi”.
Un portavoce della Tyson ha smentito le accuse di Williams relative alla morte della collega, precisando che i dirigenti hanno chiesto un momento di silenzio “nel giorno in cui è deceduta”. La società non ha voluto fornire i dati sul contagio dei dipendenti nello stabilimento di Camilla o in altri impianti, perché “la situazione è in continua evoluzione”, ma ha definito “ridotto” il numero di dipendenti risultati positivi.
Il portavoce ha aggiunto che a marzo la Tyson ha ammorbidito la sua politica sulle assenze per “ribadire l’importanza di restare a casa in caso di malattia”, cancellando il periodo d’attesa per ottenere la disabilità temporanea e portando la copertura al 90 per cento del salario abituale fino alla fine di giugno.
L’epidemia, però, sembra aver assottigliato la linea che separa i consumatori dai lavoratori
Al momento la Tyson offre ai dipendenti degli stabilimenti dove si produce carne di pollo un bonus da 500 dollari per continuare a lavorare. Il bonus verrà versato due volte, a maggio e a giugno, e dipenderà dalle presenze.
Secondo Edgar Fields, vicepresidente del sindacato Retail, wholesale and department store, l’impianto di Camilla non ha mai cessato del tutto l’attività, nonostante l’ondata di decessi avesse spinto l’azienda a sanificare la struttura durante un fine settimana. La Tyson ha cominciato a misurare la temperatura dei lavoratori all’inizio del turno e a fornire mascherine chirurgiche, ma secondo Fields e alcuni lavoratori l’azienda continua a nascondere le informazioni in merito ai dipendenti contagiati.
“Negli ultimi due mesi le persone hanno cominciato a morire per il covid-19 e abbiamo chiesto alla Casa Bianca di fare qualcosa per proteggere i lavoratori. Ora all’improvviso, mentre i contagiati continuano ad aumentare e i lavoratori non vogliono più andare in fabbrica, Trump ritiene necessario aiutare le grandi aziende”, sottolinea Fields.
L’infettivologo Michael Osterholm ha ribadito che la sanificazione e l’uso delle mascherine negli impianti non è sufficiente ad arginare la diffusione del covid-19. “Il virus è nell’aria. Fino a quando non avremo la possibilità di rilevare la sua presenza in queste strutture, penso che continueremo a registrare casi di trasmissione”, ha detto Osterholm durante una puntata del suo podcast.
Paura per i figli
Una situazione simile si è verificata in Arkansas, dove i dipendenti (non sindacalizzati) dello stabilimento della Tyson per la lavorazione del pollame di Springdale hanno organizzato una serie di proteste per chiedere un congedo per malattia e di essere pagati anche durante la quarantena.
Una lavoratrice immigrata dall’America Centrale, che ha chiesto di mantenere l’anonimato per proteggere il suo posto di lavoro, sostiene che nel suo impianto non si rispettano le misure di distanziamento sociale.
La donna, che da 19 anni ispeziona le carcasse dei polli per un salario di 13,33 dollari all’ora, lavora ogni giorno nella paura di contrarre il virus e trasmetterlo ai tre figli. “Facciamo tutti la pausa nello stesso momento. Centinaia di persone si mettono in fila e ci sono solo sette bagni”, racconta. “Alla Tyson non importa dei lavoratori. Non gli importa se ci ammaliamo”.
Un portavoce dell’azienda ha detto che l’amministrazione sta “prendendo diversi provvedimenti” per agevolare il distanziamento sociale, ma non ha voluto affrontare il tema dell’uso dei bagni.
Per più di un secolo l’industria della lavorazione della carne è stata il simbolo di come le grandi aziende riescono a sfruttare i dipendenti in nome dell’efficienza. L’epidemia di covid-19 ha scritto un nuovo capitolo di questa lunga storia. Nel 1906, dopo aver trascorso sette settimane nei mattatoi di Chicago, il giornalista Upton Sinclair pubblicò La giungla, un romanzo in cui descriveva le terribili condizioni nelle strutture dove si lavorava la carne. “Nelle salsicce finivano cose che al confronto un ratto avvelenato era un manicaretto”, scrisse Sinclair.
Il romanzo fece scalpore e spinse il governo statunitense a indagare, e poi a introdurre una serie di leggi a protezione dei consumatori.
Ma quei miglioramenti nascosero il vero obiettivo del romanzo di Sinclair, cioè raccontare lo sfruttamento degli immigrati e l’avidità senza fine dei padroni. “Ho mirato al cuore dell’opinione pubblica, ma per sbaglio ho colpito la pancia”, dichiarò Sinclair.
Dopo la seconda guerra mondiale i progressi dell’industrializzazione e della globalizzazione hanno reso ancora più evidente lo sfruttamento dei lavoratori. Al posto degli immigrati dell’Europa dell’est che popolavano i mattatoi all’inizio del secolo, negli anni settanta le fabbriche si sono riempite di lavoratori in fuga dalle guerre in Asia e in Sudamerica. Da allora la produzione è cresciuta in modo esponenziale, mentre i sindacati perdevano potere e la tutela dei lavoratori non teneva il passo con la crescita dell’attività. Oggi lavorare in uno stabilimento per la macellazione della carne è uno degli impieghi più pericolosi negli Stati Uniti.
Aziende tutelate
Il dramma dei migranti centroamericani che lavorano nell’industria della carne è tornato d’attualità nel 2019, quando l’agenzia per il controllo dell’immigrazione e delle frontiere (Ice) ha arrestato 680 persone senza documenti in quattro strutture per la lavorazione del pollame in Mississippi. Nessuna delle aziende proprietarie degli impianti, tra cui la multimiliardaria Koch Food, è stata punita per come recluta e assume i dipendenti.
I posti di lavoro rimasti vacanti sono stati occupati dagli afroamericani più poveri, in stabilimenti che sono stati poi colpiti dall’epidemia di covid-19.
Un dipendente afroamericano di un impianto Koch, in precedenza finito nel mirino dell’Ice, ha parlato con il Guardian a condizione di mantenere l’anonimato, spiegando che l’azienda ha cominciato a rilevare la temperatura dei lavoratori prima dei turni ma continua a non fornire dettagli sui casi di contagio tra i dipendenti. L’uomo sostiene che la compagnia, pur fornendo mascherine chirurgiche, costringe i lavoratori a indossarle per due o tre turni prima di cambiarle.
“Non concedono nessun sussidio per la disabilità o per la disoccupazione, e nemmeno ferie. Cerco di lavarmi spesso le mani, di coprirmi il viso e il corpo. Prego di non beccarmi il virus, ma la verità è che probabilmente ce lo beccheremo tutti”.
Koch Foods non ha risposto alle ripetute richieste di un commento.
La sociologa Lourdes Gouveia ha studiato l’industria della carne per trent’anni ed è convinta che l’epidemia di covid-19 stia semplicemente riportando alla luce le pericolose condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti. Secondo Gouveia l’industria ha perfezionato una formula che consente di massimizzare il profitto producendo carne relativamente sicura, opponendosi a qualsiasi regolamentazione e usando manodopera a basso costo (soprattutto immigrati) in condizioni di lavoro pericolose. “Tutti questi elementi fanno parte di una formula accuratamente studiata per massimizzare i profitti, una formula che difficilmente cambierà in modo radicale”.
L’epidemia, però, sembra aver assottigliato la linea che separa i consumatori dai lavoratori, evidenziando per l’ennesima volta le deprecabili condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti. “Questa volta non sono sicura che le aziende riusciranno a gestire la situazione e a nascondere il trattamento che riservano ai lavoratori”, sottolinea Gouveia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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