La campagna vaccinale condotta nel 1975 in Brasile contro la meningite da meningococco ha lasciato poche tracce nella storia sanitaria francese: una tesi di medicina e un’altra di storia delle scienze, mai pubblicate; un breve documentario visto da poche persone; e infine i faldoni di documenti accuratamente conservati negli archivi della fondazione Mérieux. “Viviamo in un paese concentrato su se stesso”, spiega Alain Mérieux, a capo dell’istituto Mérieux tra il 1968 e il 1994 e oggi presidente della fondazione. “Ciò che accade all’estero raramente ottiene grande risalto nel nostro paese”.

Eppure, quegli eventi avvenuti 37 anni fa a novemila chilometri di distanza da Parigi, sono motivo di vanto nazionale, uno di quei grandi successi, misto di ambizione, audacia e passione, che segnano le persone coinvolte e sorprendono chi ci si imbatte.

Nel 1975, tra aprile e giugno, il laboratorio farmaceutico Mérieux e le autorità brasiliane vaccinarono più di ottanta milioni di persone minacciate da una terribile epidemia di meningite cerebrospinale. A São Paulo dieci milioni di abitanti furono immunizzati in appena cinque giorni, un record assoluto nella storia delle vaccinazioni. Sono cifre enormi che ci riportano alla situazione sanitaria che viviamo oggi.

“Ma non dovremmo paragonare le due situazioni”, avverte Alain Mérieux. “Quelli erano altri tempi. Le regole sanitarie non erano le stesse, i rapporti internazionali erano diversi e il profitto non era l’unica priorità dell’industria farmaceutica”.

Mai arrendersi
Cerchiamo dunque di allontanarci dalla pandemia di covid-19 e torniamo agli anni sessanta. “A dire il vero bisogna andare indietro di altri dieci anni per comprendere questa storia”, spiega Jacques Berger, quarant’anni trascorsi all’istituto Mérieux, di cui è diventato direttore generale delegato. “Tutto è cominciato durante una riunione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) del 1963”. L’Oms aveva riunito le aziende farmaceutiche e cercava un laboratorio che potesse lavorare su una meningite epidemica che colpiva l’Africa. “Storsero tutti il naso, mentre Charles Mérieux rispose all’appello”, racconta Berger.

Uomo determinato, iperattivo e idealista, Mérieux era stato costretto dopo la morte del fratello maggiore a occuparsi del piccolo laboratorio di famiglia, trasformandolo in un’azienda ambiziosa che produceva vaccini e cure per gli uomini e gli animali.

Com’era finito in quella storia così complicata? “Pensandoci oggi, viene effettivamente da chiederselo”, ammette lo storico delle scienze Baptiste Baylac-Paouly, che nel 2018 ha scritto una tesi dedicata a quella storia. “L’istituto Mérieux non aveva esperienza in quel campo. Non esisteva un modello animale disponibile. C’era una cura, quella degli amidi solforici, che però incontrava sempre più resistenze. Il mercato era inesistente, perché la malattia colpiva solo i paesi poveri. Ma Mérieux era determinato”.

Charles Mérieux (1907-2001) era convinto che gli sforzi di quel tipo portassero sempre qualcosa di buono, e voleva fare in modo che la sua azienda acquisisse le competenze necessarie. La vicenda suggellò anche un’amicizia con Léon Lapeyssonnie (1915-2001), medico militare all’antica. “Era innamorato dello scambio umano e dell’Africa, con un motto: guardare lontano”, racconta il genero Frédéric Benoliel, oggi consulente per il commercio estero in Giappone, che ha partecipato alla fine della campagna brasiliana dell’istituto Mérieux.

Lapeyssonnie aveva condotto una battaglia senza quartiere contro la malattia del sonno e poi contro il colera. Diventato esperto regionale dell’Oms, si era messo in testa di sbarazzarsi della “cintura della meningite” che univa il Senegal all’Etiopia, con ondate epidemiche che uccidevano migliaia di bambini ogni anno. “Non perdeva mai di vista l’obiettivo”, ricorda Alain Mérieux. “Non bisognava infastidirlo con i dettagli. Ricordo una riunione in cui un rappresentante dell’amministrazione, innervosito, gli chiese di arrendersi all’evidenza. Benoliel si alzò in piedi e disse: ‘Signore, un generale francese non si arrende mai, nemmeno all’evidenza’”.

Nell’arco di dieci anni Lapeyssonnie, Mérieux e la loro squadra misero a punto il primo vaccino contro il meningococco A. Testato in diversi paesi africani, dal Sudan alla Nigeria, il vaccino arrestò diverse ondate epidemiche locali. Nell’aprile del 1974 il Bollettino dell’Oms celebrò quel successo, ma la pubblicazione passò inosservata in Francia.

Quante dosi chiese quel giorno Machado? Nessuno lo sa. Una leggenda narra che il ministro abbia pronunciato una cifra in un francese stentato

E arriviamo al Brasile. Il gigante sudamericano affrontava da anni un’epidemia di meningite cerebrospinale. All’inizio dell’inverno australe la crisi diventava un massacro. In molte città del paese, soprattutto a São Paulo, decine di bambini morivano ogni giorno. Al meningococco di tipo C si era aggiunta la variante africana di tipo A. Diventata rapidamente dominante, non rispondeva al vaccino americano utilizzato all’epoca.

Paulo de Almeida Machado, ministro della sanità nella dittatura militare al potere a Brasília, apprese la notizia data dall’Oms a proposito del successo del vaccino in Africa e gli sembrò una boa di salvataggio. Contattò Mérieux, che nel 1969 aveva venduto il 50,1 per cento della sua azienda a Rhône-Poulenc e aveva lasciato il timone al figlio Alain. “Ma conservava un ruolo importante”, racconta Baylac-Paouly. “Per lui il progetto brasiliano diventò essenziale, come si evince dalla sua corrispondenza, soprattutto negli scambi con Lapeyssonnie”. Parlando con il medico militare, Mérieux prese in considerazione l’ipotesi di una vaccinazione rapida a tappeto, ben vista dal governo brasiliano. Il 24 agosto Machado visitò Marcy-l’Étoile, nei pressi di Lione, dove si trovavano i laboratori dell’istituto.

La fila d’attesa in un centro di vaccinazione contro la meningite in Brasile, nel 1975. (Fondazione Mérieux)

Quante dosi chiese quel giorno Machado? Nessuno lo sa. Una leggenda narra che il ministro abbia pronunciato una cifra in un francese stentato, e che davanti allo stupore generale l’abbia scritta sul suo pacchetto di sigarette: cinquanta milioni.

Se l’aneddoto fosse veritiero, quel numero fu l’unico impegno scritto. “Siamo andati sulla fiducia, senza nessun contratto”, ricorda Alain Mérieux. “Tra l’altro avevamo avviato la costruzione di un edificio senza il permesso necessario, solo avvertendo il sindaco”.

Mobilitazione epocale
Per l’Istituto Mérieux la produzione di quelle cinquanta milioni di dosi – presto diventate sessanta, poi ottanta e infine novanta – era una sfida. L’azienda non aveva mai prodotto più di qualche centinaio di migliaia di dosi. In quel caso ne servivano due milioni entro la fine di settembre per le prime campagne sperimentali. Fu una mobilitazione generale. I dipendenti che erano andati in ferie in agosto accorciarono le loro vacanze. “Quelli che come me pensavano di partire a settembre le cancellarono del tutto”, ricorda Jaques Berger, all’epoca giovane responsabile commerciale per l’America Latina.

La produzione fu riorganizzata, i vaccini animali esternalizzati e gli altri umani subappaltati. Le dimensioni cambiarono in tutti gli ambiti, dai bioreattori dove si coltivavano i batteri fino alle centrifughe che separavano il prodotto attivo dal liquido di purificazioni. Alle cisterne da cinquanta litri ne fu aggiunta una da 1.100 litri. Come se non bastasse, dall’altro lato dell’Atlantico il gigante Merck, che forniva i vaccini per il meningococco di tipo C, denunciava ritardi. “Abbiamo detto ‘facciamolo!’ e in due mesi e mezzo abbiamo concepito, fabbricato e testato un vaccino bivalente, contenente i due ceppi”, racconta Alain Mérieux.

Il 15 novembre, dopo la fine dei lavori per il nuovo edificio durati meno di tre mesi, partì la produzione. Il 31 dicembre, come promesso, il laboratorio inviò i primi vaccini. Un volo Air Inter portò il carico a Orly, dove un aereo della compagnia brasiliana Varig sarebbe dovuto partire alla volta di Rio de Janeiro, il tutto rispettando una catena del freddo di -20 gradi. “Ma l’aereo era in panne”, racconta Berger, incaricato dell’operazione. “Chiamai in Brasile e dirottarono il volo da Londra. Fu l’unico inconveniente di tutta l’operazione, se così si può dire”.

Mérieux vinse la prima scommessa. Ma i brasiliani sarebbero riusciti a fare la loro parte nella somministrazione del vaccino? “Francamente non ci credevamo”, ricorda Berger. “Fecero tutto alla brasiliana, come se fosse una festa”, racconta Alain Mérieux. La prima città vaccinata fu Rio de Janeiro, dove quattro milioni di abitanti (su un totale di 4,8 milioni) ricevettero un’iniezione nell’arco di dodici giorni. “Bisognava completare tutto prima del carnevale”, racconta Berger. “Non si potevano annullare le festività, e il contagio rischiava di essere devastante”.

Scalata la prima montagna, ce n’era un’altra ancora più alta: São Paulo e i suoi dieci milioni di abitanti. La preparazione fu minuziosa. Centinaia di centri per le vaccinazioni furono piazzati in tutta la città: nelle scuole, nelle chiese, davanti alle stazioni, alle fermate dell’autobus, agli incroci stradali segnati da immensi palloni fluttuanti nell’aria. Gli altoparlanti trasmettevano l’inno composto per l’occasione, una “samba de vacinaçao”. Le squadre composte da cinque volontari immunizzavano a catena, approfittando anche di un nuovo sistema, un’iniettore ad aria compressa e senza ago, il “Ped-O Jet”, che sarebbe stato messo da parte durante l’epidemia di Aids per il timore che favorisse i contagi.

Ma all’epoca mancavano dieci anni all’esplosione dell’hiv. In cinque giorni São Paulo era protetta. Poi, nel corso dei tre mesi successivi, toccò al resto del Brasile: 8,5 milioni di chilometri quadrati, da sud a nord, dalla costa atlantica all’Amazzonia, in aereo, in camion o in barca a motore. Alla fine di giugno novanta milioni di dosi erano state somministrate in un paese di 110 milioni di persone. L’obiettivo di vaccinare il settanta per cento dei brasiliani era stato raggiunto e superato.

L’epidemia sparì e non tornò mai più. Il Brasile poteva finalmente respirare. Per l’istituto Mérieux si aprì una nuova era. Il laboratorio acquisì una dimensione internazionale. Il suo giro d’affari passò da venti milioni di franchi nel 1974, di cui meno del 5 per cento dovuti all’esportazione, a 411 milioni nel 1977, di cui il 25 per cento di esportazioni.

“Approfittarono di un incredibile allineamento dei pianeti”, conclude Baylac-Paouly. “Ma hanno anche corso un rischio industriale enorme, guidati dalla preoccupazione per la salute pubblica. Oggi non potrebbe mai succedere”. Impossibile, forse quanto l’eventualità che in pochi giorni, in Francia, si producano novanta milioni di dosi di un nuovo vaccino per combattere un’epidemia. Ma meglio fermare qui il confronto. Diciamo che era un’altra epoca.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

L’originale di questo articolo è uscito su Le Monde.

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