La natura dell’entroterra sardo è lussureggiante, ma sa essere “triste e fredda”, come scrisse Enrico Costa nel suo romanzo storico dell’ottocento Il muto di Gallura, un libro che racconta una storia disperata a sanguinosa, una faida tra due famiglie nel territorio di Aggius, nel nordest dell’isola. Al centro della storia c’è Bastiano Bansu, un bandito sordomuto, una specie di freak che affoga nel sangue il dolore e la frustrazione provati da quando è nato, perché tutti lo evitano e lo prendono in giro, considerandolo poco più che una bestia. Bansu uccide la prima volta per vendicare l’omicidio di suo fratello, ma poi non riesce più a fermarsi perché “se non era in suo potere dar la vita ai morti, ben sapeva che avrebbe potuto dar la morte ai vivi”, scrive Costa.
È in questo cuore di tenebra della Sardegna che Salmo sembra aver trovato l’ispirazione per scrivere e registrare uno dei pezzi più belli di Ranch, il suo nuovo disco. Il brano s’intitola Crudele e racconta la storia della famiglia di suo padre, cresciuto in Barbagia. “Mio bisnonno ha fatto a pezzi suo cugino / e l’ha sotterrato in giardino / dicci dov’è il suo corpo o fai la stessa fine / Il sangue segnava il confine, la famiglia si divise”, rappa Salmo nel primo verso del brano, che poi passa in rassegna le vicende di suo nonno, un uomo alcolizzato che aveva due famiglie ma ne considerava solo una, e quella di suo padre, costretto a vivere “nel fottuto castello delle streghe” con i sei fratelli e la madre. La narrazione arriva fino a Salmo, il primo della famiglia in grado rompere il sortilegio della povertà grazie alla musica. “Lo sai che chi brilla a volte è figlio dell’ombra?”, chiosa il rapper.
Crudele è il vertice creativo di Ranch, ma è in ottima compagnia. Il settimo disco del musicista di Olbia è un lavoro ricco e coinvolgente, in grado di dare finalmente nuova linfa alla scena hip-hop italiana, oggi non in grandissima salute. Per registrarlo, il rapper si è allontanato da Milano e ha scelto d’isolarsi: si è trasferito in una casa sulle colline della Gallura, ha abbandonato i social media e si è circondato solo delle persone che lavoravano ai brani.
Mi piace pensare che sia stato proprio l’influsso della Gallura, di quella natura che sa essere bella ma anche terribile, a far tornare Salmo ai suoi livelli migliori: l’album, pur avendo come filo conduttore un’atmosfera piuttosto cupa e malinconica, regala grande varietà di stili e influenze. Ci sono momenti di rap old school come quello di Bye bye, con il featuring (l’unico del disco) splendido di Kaos (“Io non vi piaccio, non faccio tendenza / sono solo uno straccio, vi ho pulito la coscienza”) e un arrangiamento che fa pensare al periodo di Midnite.
A tratti Salmo vira verso il cantautorato, per esempio in Sangue amaro, un altro dei miei momenti preferiti, nel quale sentenzia: “Il rap è morto a colpi di pistola e film crime”. Ed è bravo a spingere sull’acceleratore quando serve: per esempio in Bounce!, dove sembra di essere tornati ai tempi di Death USB e viene lanciata una stoccata all’influenza negativa dell’estrema destra sul nostro paese (“l’italiano che saluta con la mano e con la faccia di Di Canio”) sopra un riff tagliente di basso e chitarra. Ad aprire Il figlio del prete – una storia di fantasia liberamente ispirata a Vatican girl, il documentario sull’omicidio su Emanuela Orlandi – c’è addirittura una chitarra acustica. E Fuori controllo, con quei suoni rave, è un pezzo che nessun rapper italiano a parte lui potrebbe permettersi.
Il finale del disco vira verso l’autobiografia: in Mauri l’artista fa un bilancio sulla sua carriera, evocando di nuovo il salmo 23 dell’antico testamento (“Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”) e confermando che religiosità e anticlericalismo convivono sempre nei suoi pezzi, mentre sostiene di aver trovato la pace da quando “vive in collina”. L’ultimo brano, Titoli di coda, è più che un altro una lettera di ringraziamenti, con in coda una specie di sketch comico che prende in giro le case discografiche italiane alla ricerca costante della “hit”. Quasi come se Salmo avesse voluto controbilanciare la cupezza e la serietà del disco con una chiusura autoironica.
Al di là della conclusione giocosa, Ranch resta un lavoro di alto livello, sicuramente uno dei migliori album rap del decennio in Italia. Salmo sembra essersi messo prima di tutto in ascolto: in ascolto della sua terra d’origine, della quale per indole sottolinea le parti più oscure e violente; in ascolto della storia del rap, omaggiando senza scimmiottarli mostri sacri come Primo Brown, Sangue Misto e l’amico Noyz Narcos (in particolare il suo Verano zombie); in ascolto di se stesso, quasi avesse trovato una lucidità in grado di aprire un nuovo capitolo della sua carriera.
Nelle pagine finali del Muto di Gallura il bandito Bastiano Bansu si è rifugiato sui monti per nascondersi dai carabinieri e dai suoi nemici e immergersi nel silenzio della natura. Al tramonto, le campane del paese di Aggius suonano l’Ave Maria. Ma lui non se ne accorge, fa notare Enrico Costa: “Egli era sordo, e non udiva la campana; era muto e non sapeva pregare”.
Anche in Ranch c’è un’Ave Maria, ma è all’inizio. Il primo brano in scaletta, On fire, si apre con un campionamento di Ave Maria catalana di Maria Carta, cantante e attrice nata in provincia di Sassari che ha fatto del recupero della tradizione sarda una missione di vita. L’organo e la voce di Carta danno al pezzo una certa solennità, che viene squarciata dal beat del produttore di Low Kidd e dalla voce di Salmo, che evoca una “Ave Maria piena di rabbia” e implora: “Fatemi uscire, sono il cane che abbaia”. Il cuore di tenebra sardo è ancora vivo.
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