Nell’autunno del 1981 il successo aveva reso Bruce Springsteen un uomo solo. Pochi mesi prima prima il singolo Hungry heart, una canzone con una melodia allegra e orecchiabile sulla storia di un padre che abbandona la famiglia da un giorno all’altro, era finito nei primi cinque posti della classifica statunitense. Per lui era la prima volta. Il tour del disco che conteneva quel brano, The river, era stato un trionfo, anche per la E Street Band. Ormai era chiaro che con il prossimo disco sarebbe diventato una rockstar di fama mondiale.

Tutti erano pronti al grande salto: la sua casa discografica, i suoi collaboratori, i suoi fan. Tutti tranne Springsteen. Come raccontava lo stesso cantautore nello splendido libro di Warren Zanes Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska (Jimenez 2024), qualcosa in lui si era rotto: “Arrivavo da The river e finalmente avevo abbastanza soldi da pagarmi i debiti, una cosa che mi rendeva unico nel mio piccolo quartiere. Vivevo ancora lì. Per cui stavo affrontando la cosa, i miei sentimenti parecchio contrastanti sull’essere così distante dalla gente con cui ero cresciuto e della quale scrivevo. Stavo cercando di capire come affrontare tutto questo. E per moltissimo tempo ho vissuto il tutto con senso di colpa”.

In quel periodo riusciva a essere felice solo sul palco. Nel resto del tempo era cupo, solitario e tormentato dai fantasmi del suo passato, in particolare dal rapporto complicato con suo padre, Douglas, un uomo martoriato dalla depressione, taciturno, alcolizzato e a volte verbalmente violento con lui e la madre. Per affrontare quelle ombre il cantautore si era isolato in una casa affittata a Colts Neck, un piccolo centro abitato del New Jersey, portandosi una chitarra acustica e un registratore a quattro piste su cassetta. Lì, in una camera da letto con la moquette a pelo lungo, realizzò il suo disco al tempo stesso più minimalista e poetico: Nebraska. Un album pubblicato nel settembre 1982, che ancora oggi molti fan considerano il migliore della sua carriera.

È proprio da questa crisi, analizzata in modo efficace nel libro di Zanes, che il regista e produttore Scott Cooper – già autore di un film sul mondo della musica, Crazy heart, con Jeff Bridges – è partito per realizzare il suo nuovo film, Springsteen. Liberami dal nulla, in uscita nelle sale italiane il 23 ottobre. Sul grande schermo il Boss è interpretato da Jeremy Allen White, protagonista della serie The bear.

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Springsteen. Liberami dal nulla comincia da una scena in bianco e nero che evoca i fantasmi dell’infanzia del cantautore. Uno Springsteen bambino è mandato dalla madre in un bar a recuperare il padre (interpretato dal sempre impeccabile Stephen Graham). L’uomo, seduto al bancone a bere e a fumare, quando lo vede, senza alcun moto d’affetto, si limita a dirgli: “Aspettami fuori”. Poi la cinepresa si sposta su un concerto del 1981, nel quale Jeremy Allen White entra nei panni del Boss per suonare una versione tiratissima di Born to run.

Dopo questi due scene iniziali, il dramma interiore di Springsteen prende forma, e il film porta lo spettatore fino a Colts Neck, in quella piccola casa che diventa archetipo dell’America profonda e la cui estetica rimanda a certe scene di Fargo dei fratelli Coen. Lì Allen White/Springsteen sussurra le canzoni con la chitarra sul letto e poi le registra in forma scarna con l’aiuto del tecnico del suono Mike Batlan. Raccoglie il materiale in una cassetta senza custodia e la fa consegnare insieme a una lettera al suo manager, Jon Landau (credibile nell’interpretazione di Jeremy Strong).

Poi va in studio con la band per trasformare quei provini in un disco, ma nonostante i vari tentativi non riesce a ricreare l’immaginario che aveva evocato a Colts Neck. Dopo varie registrazioni riuscitissime ma scartate (compresa la Born in the U.S.A. che lo consacrerà due anni dopo), discussioni e crisi di coscienza, con una mossa a sorpresa Springsteen decide che pubblicherà direttamente la demo registrata su cassetta, senza singoli radiofonici né interviste promozionali, tra l’incredulità dei suoi collaboratori e della casa discografica.

Nebraska, del quale il 24 ottobre uscirà anche un’edizione speciale con diversi brani inediti, è stato un disco rivoluzionario. Oggi è comune registrare un album in casa, ma per i tempi – e per il punto in cui era carriera arrivata la carriera di Springsteen – la scelta di metterlo sul mercato così, grezzo e senza compromessi, è stato un atto di lucida follia in grado di consegnare alla musica statunitense un’opera di grande complessità e fascino.

“Bruce è politico, ma non perché prende le parti di un partito o di un altro, lo è da un punto di vista umano. Quel disco parla alle persone che vivono ai margini della società, a quelle che non hanno nulla, che trascorrono una vita di quieta disperazione, che lottano per raggiungere il sogno americano ma non ci riescono. L’ha fatto nel 1982, ma lo fa ancora oggi, per questo è così attuale”, ha raccontato Scott Cooper in un incontro con i giornalisti il 10 ottobre a Roma in occasione dell’anteprima del film. “C’è molta rabbia e disperazione in quel disco, ma anche empatia”, gli ha fatto eco l’attore Jeremy Allen White, anche lui in sala, sorprendentemente timido e introverso.

Come dice giustamente Cooper, i protagonisti delle canzoni di Nebraska sono le persone ai margini della società. Una costante nella discografia di Springsteen. Con il disco del 1982 il cantautore, però, è andato oltre, esplorando come mai prima il lato oscuro degli Stati Uniti, reagendo all’America reganiana che stava per nascere sull’onda di uno slogan tornato tristemente d’attualità negli ultimi anni: “Let’s make America great again”.

Il fatto che il brano iniziale dell’album, quello che gli dà il titolo, assuma il punto di vista del pluriomicida Charles Starkweather, raccontato anche dal film del 1973 La rabbia giovane di Terrence Malick, rende le cose chiare fin dall’inizio. In un altro pezzo, Johnny 99, un operaio perde il lavoro, si ubriaca e poi uccide un povero lavoratore notturno in New Jersey. Nella meravigliosa Atlantic City un uomo è così pieno di debiti che decide di fare un lavoretto per la mafia. Mentre lo dice alla fidanzata le suggerisce di vestirsi e truccarsi bene, e di aspettarlo sul lungomare, ricordandole che “tutto muore, tesoro, questo è un fatto. Ma forse tutto ciò che muore un giorno tornerà”.

Nella demoniaca State trooper, che risente dell’influenza del brutale proto-punk dei Suicide, Springsteen canta come se fosse uscito da un incubo di David Lynch e nel finale ulula come un coyote. L’America di Nebraska è la versione più disperata di quella di Born to run e Darkness on the edge of town. “È il disco più punk mai fatto da Springsteen, non in termini di suono ma in termini di spirito”, ha detto Cooper.

Springsteen. Liberami dal nulla funziona perché, pur non potendo (e in parte non volendo) mostrare tutta questa oscurità, la lascia comunque intuire. E si concentra soprattutto sulla crisi esistenziale del cantautore e sul suo atto di ribellione ai meccanismi dello show business. Il film a volte inciampa nei cliché della biografia da grande schermo (in un paio di passaggi sembra di stare dentro la spassosa parodia Walk hard. La storia di Dewey Cox). Ma rispetto ad altri biopic le cose vanno meglio.

Forse solo la storia d’amore semi inventata con Faye Romano, ragazza-madre appassionata di rock’n’roll, ha dei momenti di gratuito romanticismo hollywoodiano. E anche la scena in cui la band suona Born in the U.S.A. in studio nella versione del 1984 invece che in quella scarna e oscura è una concessione facile agli spettatori. Ma qualche inciampo a Scott Cooper lo si può perdonare. Anche perché Springsteen. Liberami dal nulla ha il merito di farsi intimo, a tratti anche commovente, e di mostrare come quelle canzoni per Springsteen furono l’anticamera della psicoterapia, unico modo per affrontare davvero la depressione ereditata dal padre.

Come Cooper alla regia, Jeremy Allen White è molto bravo a dare corpo al tormento del cantautore, con quegli sguardi assenti che a tratti fanno pensare al personaggio di Carmy Berzatto in The bear. Il ritratto che ne fa l’attore newyorchese funziona perché è poco agiografico, mai schiavo del mito, come invece a tratti era successo al pur bravo Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan in A complete unknown di James Mangold. Allen White, tutto sommato resta sé stesso. E tra l’altro è molto bravo anche a cantare, nelle parti del film in cui la sua voce si unisce a quella originale in un gioco di rimandi piuttosto interessante.

A Roma Allen White ha raccontato che il suo primo incontro con Springsteen è stato dietro le quinte di un concerto allo stadio di Wembley nel 2024: “Vederlo suonare per tre ore e mezzo di fronte a novantamila persone è stato bellissimo ma anche intimidatorio, sapendo che nel giro di pochi mesi avrei recitato la parte del Boss nel film. La sua performance sul palco è molto fisica, in quello che fa c’è passione e quasi violenza. Di persona invece è gentile e dolce, averlo sul set al mio fianco mentre giravamo le scene mi ha aiutato molto. All’inizio non ero sicuro di voler accettare la parte, sentivo la pressione di dover interpretare una figura così importante della musica statunitense, ma il fatto che Bruce credesse nel progetto mi ha convinto a farlo”.

Nel film sono presenti anche i riferimenti culturali del disco: le scene della Rabbia giovane di Malick che Springsteen vede in tv, l’ascolto compulsivo di Frankie teardrop dei Suicide e i romanzi di Flannery O’Connor, fondamentali per l’ispirazione dei testi. Manca giusto qualche accenno ai mostri sacri del folk e del country come Woody Guthrie e Hank Williams, due punti di riferimento assoluti di Nebraska, un lavoro che sembra venire da un passato lontanissimo.

In diverse scene le canzoni del disco fanno capolino, ma non sono mai troppo ingombranti e arrivano nei momenti giusti, come quando in una sequenza in bianco e nero si rievoca Mansion on the hill, un brano sulle differenze di classe viste dallo sguardo innocente ma impietoso di un bambino. Springsteen. Liberami dal nulla, per fortuna, scongiura l’effetto karaoke del poco riuscito Bohemian rhapsody di Bryan Singer. Anche perché Nebraska è un disco che si presta poco. È un lavoro da ascoltare e riascoltare per intero.

Come A complete unknown, questo film potrebbe far conoscere Bruce Springsteen alla generazione Z. Ma rispetto all’opera di Mangold è meno ambizioso e meno interessato al raccontare i grandi cambiamenti di un’epoca, anzi a tratti sembra quasi un lavoro dimesso. Per la sua natura forse Springsteen. Liberami dal nulla è pensato più per i fan e per le persone che hanno una certa dimestichezza con la biografia del Boss. È un film sicuramente imperfetto, ma che trasuda passione. La cosa che resta di più è forse il messaggio positivo che lascia: dentro ogni crisi, perfino dentro la più profonda, si nasconde una rinascita.

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