Quando è uscito il documentario The Beatles. Get back di Peter Jackson, da accanito beatlesiano ho perso la testa. Un simile racconto dell’interazione umana e artistica tra Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr durante la lavorazione dell’album Get back (poi diventato Let it be) negli studi di Abbey Road era una specie di sacro Graal per gli appassionati della band di Liverpool. Per tutta la durata delle otto ore del film c’era l’impressione di stare dentro quelle stanze con la band, di essere testimoni di momenti in cui si faceva la storia della musica.
Ora, non fraintendetemi: Tracks II. The lost albums di Bruce Springsteen, cofanetto che raccoglie sette album del cantautore del New Jersey registrati tra il 1983 e il 2018 e finora mai pubblicati, non è niente di paragonabile a The Beatles: Get back. Anzitutto perché Springsteen non è al livello dei Beatles (nessuno è al livello dei Beatles), in secondo luogo in questa raccolta mancano le immagini. Ma il principio è simile. Tracks II. The lost albums è una specie di scrigno dei tesori che farà contento ogni fan del Boss, non tanto per la qualità della musica (che comunque è abbastanza alta), ma per il fatto che mostra un lato del musicista statunitense che finora lui stesso aveva tenuto nascosto. Perfino chi lo conosce da anni potrebbe trovarci dentro qualche sorpresa. È un documento da studiare e da assaporare con il tempo e ha poco senso recensirlo come se fosse un disco appena pubblicato. È più un archivio nel quale è bello curiosare, e anche perdersi.
Prendete il primo album della raccolta, L.A. garage sessions ’83, una serie di registrazioni minimaliste che documentano il periodo tra Nebraska e Born in the U.S.A. Ascoltandolo, viene da chiedersi cosa sarebbe successo se Springsteen, invece che fare il disco più famoso e pop della sua carriera, nel 1984 avesse esplorato ancora di più la vena cantautoriale e cupa esibita nel capolavoro acustico del 1982. Tra l’altro L.A. garage sessions ’83 contiene perle come Follow that dream, una versione primordiale di My hometown, pezzi di denuncia come The Klansman, un brano nel quale un ragazzo scopre che suo padre è un reclutatore del Ku klux klan che vuole “ripulire il paese”. C’è anche Unsatisfied heart, un pezzo già noto agli appassionati di cui i War On Drugs hanno fatto un’ottima versione nel 2018. In questa raccolta non c’è invece il misterioso Electric Nebraska, versione registrata con la E Street Band del capolavoro del 1982 che potrebbe vedere la luce, prima o poi.
E questo è solo il primo dei sette dischi contenuti nel cofanetto. Le Streets of Philadelphia sessions, costruite su beat minimalisti di drum machine e sintetizzatori registrati in casa a Los Angeles in seguito al successo della canzone Streets of Philadelphia, sono un’altra dimostrazione di quante sfaccettature abbia Springsteen, che qui sembra un misto tra una Lorde ante-litteram e un produttore innamorato dei beat rap. I risultati non sono sempre indimenticabili, ma è comunque spiazzante in senso buono osservare il cantautore da questa angolatura, e anche qui ci sono diverse canzoni buone (Maybe I don’t know you, One beautiful morning, Secret garden).
In Tracks II. The lost albums c’è anche Faithless, colonna sonora del 2005 scritta per un western mai girato, che raccoglie diversi brani strumentali, abbonda d’immagini religiose e fa pensare alle atmosfere create da Ry Cooder per Paris, Texas di Wim Wenders. A me Springsteen in questa veste più spirituale e tradizionale, per esempio, piace moltissimo. Il brano All god’s children mi ha fatto saltare sulla sedia per quanto è intenso. Quel verso “I ain’t been to heaven but I’ve been to hell” mi ha fatto venire in mente il Tom Waits più vicino al gospel.
Convince meno il rock-country del quarto disco Somewhere north of Nashville (risalente al 1995), anche se la cover di Poor side of town di Johnny Rivers è splendida. Ho molto apprezzato, invece, il quinto album Inyo, la cui origine si data sempre attorno al 1995 e cioè al periodo di The ghost of Tom Joad. Qui Springsteen collabora con musicisti mariachi e si concentra soprattutto sulla diaspora messicana e su storie legate al confine settentrionale degli Stati Uniti. I dieci brani di Inyo piacerebbero tanto ai Calexico, per capirci.
In Twilight hours, disco registrato in contemporanea a Western stars, ma scartato perché considerato troppo blando dal suo autore, Springsteen gioca a fare il Burt Bacharach con risultati alterni. Perfect world invece è una compilation nella compilation, che raccoglie vari brani registrati con alcuni componenti della E Street Band e che suona come il gemello meno ispirato di The rising e Wrecking ball. Anche in questo caso, niente d’indimenticabile.
Insomma, Tracks II. The lost albums quasi disorienta per la quantità di musica e spunti che offre. Bisogna avere tempo e voglia di tuffarcisi dentro, eppure alcuni di questi brani potrebbero sorprendere perfino gli ascoltatori meno legati al cantautore del New Jersey. Per i suoi fan, invece, questo cofanetto è il sacro Graal. Almeno fino alla prossima puntata, perché, a quanto pare, l’archivio di Springsteen nasconde altri tesori.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Musicale.
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