L’appuntamento è per il 12 giugno al Cairo. Da lì circa tremila attivisti provenienti da una cinquantina di paesi vogliono prendere degli autobus per Al Arish, una città che si trova 344 chilometri a nordest sulla costa mediterranea della penisola del Sinai. Poi si metteranno in cammino per percorrere i cinquanta chilometri che la separano dal valico di Rafah, tra l’Egitto e la Striscia di Gaza, dove l’arrivo è previsto fra tre giorni, il 15 giugno. L’obiettivo è accamparsi al confine per le successive tre notti (il ritorno al Cairo in autobus è fissato per il 19 giugno) e negoziare l’apertura della frontiera con le autorità egiziane, coordinandosi con ong, diplomatici e organizzazioni umanitarie.

L’iniziativa è organizzata dalla Marcia globale su Gaza, un movimento che raggruppa diverse organizzazioni di tutto il mondo e si definisce “civico, apolitico, pacifico e indipendente”, si legge sul suo sito. Sostiene di non rappresentare nessun partito politico, ideologia né religione, e di essere guidato esclusivamente dai princìpi di “giustizia, dignità umana e pace”. Gli organizzatori sanno che riuscire a entrare a Gaza è praticamente impossibile. Il loro obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica perché aumentino le pressioni internazionali per spingere il governo israeliano a fermare la sua guerra nella Striscia di Gaza.

La prima difficoltà è attraversare la penisola del Sinai, un’area in cui da anni sono attivi gruppi estremisti legati ad Al Qaeda e allo Stato islamico e dove l’Egitto, in coordinamento con Israele, ha schierato le sue truppe. La parte più delicata del percorso è la strada che unisce Al Arish a Rafah, considerata dal Cairo zona militare e disseminata di posti di blocco, e dove l’ingresso è consentito solo a chi ci vive o ha un permesso speciale del governo. Secondo Haaretz è probabile che gli attivisti si fermino ad Al Arish. Ma in ogni caso avranno raggiunto il loro obiettivo principale: “Generare pressione morale e mediatica attraverso la visibilità. L’immagine di migliaia di civili disarmati che marciano insieme invierebbe di per sé un messaggio potente”.

Nelle settimane scorse delegazioni di diversi paesi si sono incontrate con le autorità egiziane per concordare i dettagli della marcia, racconta Middle East Eye. Finora il governo del Cairo non ha dato il suo consenso al passaggio degli attivisti, ma non si è neanche esplicitamente opposto. Come ha spiegato al sito panarabo l’attivista statunitense Hannah Claire Smith, che partecipa all’iniziativa, la speranza è che il possesso di passaporti occidentali possa spianare la strada: “Chi di noi ha il privilegio del passaporto e può usarlo come un modo per attirare l’attenzione su questa situazione orribile, sui crimini di guerra e sulle atrocità, dovrebbe farlo al meglio delle sue capacità”.

“L’ideale sarebbe che il governo egiziano ci permettesse di raggiungere il confine e ci garantisse la sicurezza mentre siamo accampati lì”, ha detto ad Haaretz Manuel Tapial, coordinatore della delegazione canadese. “Ma qualunque cosa accada, avremo l’opportunità di esprimere i nostri punti di vista di fronte ai mezzi d’informazione internazionali, e anche questo è fondamentale”. Tapial ha aggiunto di essere consapevole dei rischi ma di sentirsi frustrato perché tutta la pressione fatta sul governo israeliano e su quelli occidentali per fermare il massacro a Gaza non è servita a niente: “È ora di provare qualcosa di diverso”.

Una parte del convoglio, circa mille persone partite lunedì da Tunisi a bordo di una decina di autobus e molte auto, ha raggiunto il 10 giugno la Libia ed è in attesa del permesso per attraversare la parte orientale del paese verso il confine con l’Egitto. Si chiama convoglio Sumud (resilienza, in arabo) ed è composto da cittadini del Maghreb, soprattutto tunisini ma anche circa duecento algerini e decine di libici. Se dovesse essere bloccato al confine con l’Egitto, i partecipanti prevedono di accamparsi a tempo indeterminato. “Anche questo manderà un messaggio”, ha detto uno di loro a The New Arab. “Le persone vincono sul potere. Se ne fermano decine, se ne alzeranno migliaia”.

Intanto quattro dei dodici attivisti provenienti da diversi paesi che erano a bordo della barca a vela Madleen, fermata dalle forze armate israeliane nella notte tra l’8 e il 9 giugno, sono stati rimpatriati. Tra loro c’è l’ambientalista svedese Greta Thunberg. Altri otto – quattro francesi, tra cui l’eurodeputata Rima Hassan, una tedesca, un turco, un olandese e un brasiliano – hanno rifiutato l’espulsione e sono comparsi davanti a un tribunale israeliano che ha confermato i loro “ordini di detenzione”. Potranno essere rimandati nei loro paesi nel corso della settimana, dato che la legge israeliana prevede la possibilità di espellere con la forza chi entra illegalmente nel paese.

La Madleen fa parte del movimento internazionale nonviolento Freedom flotilla coalition. Cercava di portare simbolicamente aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, rompendo il blocco imposto da Israele sul territorio palestinese. Era partita il 1 giugno dal porto di Catania e dopo uno scalo in Egitto si era diretta verso Gaza ignorando gli avvertimenti d’Israele, che aveva ordinato alle sue forze armate di bloccarla. I militari ne hanno preso il controllo mentre si trovava in acque internazionali, a circa 200 chilometri dalle coste israeliane, e l’hanno dirottata verso il porto di Ashdod, nel sud d’Israele.

Gli attivisti hanno ricevuto panini e acqua dai soldati, come mostra un video diffuso dal ministero degli esteri, che ha anche pubblicato una foto di Thunberg davanti a un soldato con un sorriso tirato, accompagnata dalla scritta: “Greta Thunberg è attualmente in viaggio verso Israele, salva e di buon umore”. Un editoriale di Haaretz sottolinea i tentativi fatti da vari esponenti del governo israeliano per screditare e delegittimare gli attivisti della Freedom flotilla, prendendosela in particolare con Thunberg: giovane, donna e volto più famoso della missione. L’account del ministero degli esteri ha parlato di “selfie yacht” e “celebrity yacht”, criticando quello che considera un “espediente mediatico per farsi pubblicità”.

Il ministro della difesa Israel Katz ha prevedibilmente definito Greta (usando solo il nome) “antisemita” e “sostenitrice di Hamas”. In quella che Haaretz descrive “una farsa ispirata ad Arancia meccanica”, il ministro ha anche ordinato ai militari che hanno assaltato la Madleen di mostrare ai passeggeri un video sulle atrocità commesse da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, cosa che alla fine non è stata fatta.

Purtroppo anche alcuni giornali occidentali hanno seguito questa lettura, con l’editoriale dello Spiegel dal titolo “Il cattivo servizio di Greta” che definisce la missione un “espediente per le pubbliche relazioni” con l’unica conseguenza di attirare l’attenzione sui suoi protagonisti internazionali. Anche per il giornale conservatore svedese Svenska Dagbladet si tratta di “nient’altro che un atto simbolico, sintomatico della nostra epoca in cui tutto si riduce a divertimento e gesti privi di senso”.

Su Middle East Eye Soumaya Ghannoushi offre una prospettiva diversa: “La Madleen non era solo una barca. Era un messaggio scolpito nelle onde”. Era la dimostrazione che la Palestina “non è più la causa di una regione, ma è diventata la coscienza del mondo”. L’iniziativa ha messo in luce non solo l’importanza della solidarietà nei confronti dei palestinesi, ma anche l’apatia della comunità internazionale, il silenzio dei paesi arabi e l’aggressività del governo israeliano. Da questo punto di vista, la Freedom flotilla può essere considerata anche come “uno specchio”, conclude Ghannoushi: “Ci mostra il mondo com’è e come potrebbe essere. La liberazione non è un dono dei potenti. È un progetto degli impotenti”.

Un editoriale pubblicato su questo numero di Internazionale, ripreso dal giornale panarabo Arab News, sottolinea che la missione della Madleen “dimostra il potere della società civile”. Sullo stesso numero c’è un articolo di Al Jazeera che denuncia i finanziamenti israeliani alle bande armate di Gaza, un modo per creare il caos e dimostrare che i palestinesi non sono in grado di cavarsela da soli.

L’11 giugno la difesa civile di Gaza ha indicato che altri 31 palestinesi sono stati uccisi e duecento feriti dai colpi dell’esercito israeliano mentre cercavano di procurarsi aiuti umanitari. Secondo Al Jazeera almeno 150 persone sono state uccise dai soldati israeliani o dalle bande armate nella stessa situazione. Alcune immagini circolate sui social network mostrano scene terrificanti. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha stabilito che gli attacchi israeliani contro scuole e siti religiosi e culturali nella Striscia di Gaza costituiscono crimini di guerra e il crimine contro l’umanità di “sterminio”. Intanto Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Norvegia hanno imposto sanzioni a due ministri israeliani di estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, accusati di istigare la violenza contro le comunità di palestinesi in Cisgiordania.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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