Improvvisamente Donald Trump si è avvicinato a Ursula von der Leyen e le ha teso la mano, elogiando con il suo tipico gusto per i superlativi “il più grande ‘accordo’ mai concluso”. La presidente della Commissione europea, che fino a quel momento era rimasta immobile sulla sua grande poltrona di velluto verde, ha accettato la stretta di mano. Il 27 luglio questo gesto ha messo fine a decine di ore di trattative, in certe fasi molto accesse, tra la delegazione europea e quella statunitense, culminate nell’incontro organizzato nella sala da ballo del grande golf club di proprietà di Donald Trump a Turnberry, sulla costa occidentale della Scozia.
La tensione è rimasta elevata fino all’ultimo minuto. All’inizio dell’intervista Trump ha dichiarato di essere “di cattivo umore” e ha continuato a sostenere che le probabilità di successo della trattativa erano appena del cinquanta per cento. L’accordo è stato raggiunto a cinque giorni dalla scadenza del primo agosto, fissata da Trump per l’imposizione di dazi punitivi del 30 per cento sulle esportazioni europee.
Costretti a scegliere tra due mali, gli europei hanno preferito quello che gli è sembrato il male minore: un compromesso sbilanciato a favore degli Stati Uniti anziché una guerra commerciale di enorme portata di cui nessuno avrebbe potuto prevedere gli esiti. “Preferiamo la stabilità alla totale imprevedibilità”, ha dichiarato il commissario europeo al commercio Maroš Šefčovič a bordo dell’aereo che da Bruxelles lo ha portato a Glasgow.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni hanno accolto l’accordo senza entusiasmo, mentre il primo ministro belga Bart De Wever è stato quello che ha riassunto meglio il sentimento dei leader europei: “Questo è un momento di sollievo, ma non di festeggiamento”. Sul versante francese, il 28 luglio il ministro con delega all’Europa Benjamin Haddad ha riconosciuto che l’accordo garantirà una “stabilità temporanea” ma ha anche sottolineato quanto sia “squilibrato”.
Il compromesso trovato dal presidente degli Stati Uniti e dalla sua invitata, a cui Trump ha attribuito l’inesistente titolo di “presidente dell’Unione europea”, prevede dazi doganali del 15 per cento sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti. Si tratta di un leggero ribasso sulle tariffe rispetto al 20 per cento annunciato da Trump il 2 aprile, in occasione del suo Liberation day.
L’imposta generale del 15 per cento si applicherà anche ai semiconduttori e al settore dell’automobile, colpito al momento da imposte del 27,5 per cento all’ingresso sul territorio statunitense. Secondo Von der Leyen i dazi riguarderanno anche i prodotti farmaceutici, nonostante inizialmente Trump avesse dichiarato che non voleva includerli nell’accordo.
Accordo asimmetrico
Sono previste esenzioni per varie categorie, tra cui il settore dell’aeronautica, alcuni prodotti chimici, diverse derrate agricole e le cosiddette materie prime “critiche”, a cui non sarà applicato alcun diritto di dogana. L’acciaio e l’alluminio, attualmente tassati al 50 per cento all’ingresso negli Stati Uniti, saranno al centro di trattative separate.
L’accordo annunciato il 27 luglio congela le contromisure commerciali che gli europei avevano cominciato a preparare. A partire dal 7 agosto i paesi dell’Unione europea avevano deciso di aumentare i dazi su una lista di prodotti provenienti dagli Stati Uniti per un valore di 93 miliardi di euro. Ora queste imposte saranno sospese fino a nuovo ordine.
“Bisogna ricordare che senza questo accordo, il prossimo primo agosto avremmo avuto i dazi al 30 per cento”, ha ribadito Von der Leyen in occasione della conferenza stampa successiva all’incontro. La Commissione ha ritenuto che questo tasso avrebbe avuto un impatto disastroso, interrompendo di fatto il commercio transatlantico.
Gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo partner commerciale dell’Europa, con 532 miliardi di euro di beni esportati nel 2024. Con dazi del 15 per cento, la speranza è che il trauma possa essere assorbito. “È un tasso asimmetrico, ma quanto meno non è proibitivo per la maggior parte dei settori”, sottolinea un diplomatico europeo.
Questo punto di vista non è sempre condiviso negli ambienti finanziari. La Federazione tedesca dell’industria ha reagito immediatamente sottolineando che “l’Unione europea ha accettato dazi doganali dolorosi” che avranno “ripercussioni negative considerevoli sull’industria europea, molto orientata verso le esportazioni”. “Il prezzo da pagare è elevato per entrambe le parti”, ha commentato invece la Federazione tedesca della chimica.
L’accordo di Turnberry si accompagna a un impegno da parte degli europei ad acquistare prodotti energetici statunitensi per una cifra complessiva di 750 miliardi di dollari (640 miliardi di euro) nel corso dei prossimi tre anni, a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare materiale militare americano in quantità che restano da determinare, ma che Trump ha già definito “enormi”.
Punti da chiarire
Diversi punti sono ancora da chiarire, anche perché la Commissione europea non ha un potere reale in alcuni ambiti. Per esempio Bruxelles non può effettuare ordini sui mercati del petrolio e del gas. Se l’accordo dovesse davvero comportare un incremento dell’acquisto di gas naturale liquido dagli Stati Uniti, le ambizioni climatiche europee potrebbero essere compromesse. Inoltre, com’è evidente, la Commissione non può fare investimenti per conto delle imprese. Eppure tutto questo non ha impedito a Trump di pavoneggiarsi, come gli europei si aspettavano.
“Siamo costretti a piegare la schiena”, si rammarica il diplomatico citato in precedenza. Poco incline alla retorica populista, la Commissione non ha interesse a usare il linguaggio trumpiano. Dichiarandosi vittoriosa o lasciando trapelare troppo il proprio sollievo, Von der Leyen potrebbe infatti rischiare pesanti contraccolpi.
Resta il fatto che le ambizioni europee si sono progressivamente ridimensionate. Inizialmente le Commissione sperava di convincere Washington a creare una zona di libero scambio transatlantico con dazi dello zero per cento da entrambe le parti, prima di comprendere che per il presidente statunitense era una questione molto emotiva. Poi Bruxelles ha creduto di poter trovare un accordo che prevedesse dazi del 10 per cento sulle importazioni europee, con un sistema di deroghe per il settore dell’automobile, fino a quando Trump ha sventolato la minaccia del 30 per cento.
Davanti alla prepotenza di Trump, tra i 27 stati dell’Unione sono emerse divergenze rispetto alla reazione da contrapporre agli Stati Uniti. Alcuni paesi, tra cui la Francia, ritenevano giusto mettere in discussione il rapporto di forza con gli Stati Uniti, mentre altri governi preferivano evitare lo scontro, spesso spinti da ragioni economiche. Nel 2024, per esempio, la Germania ha esportato verso gli Stati Uniti beni per oltre 161 miliardi di euro, l’Irlanda per 72 miliardi e l’Italia per 65 miliardi.
Gli stati più coinvolti hanno scelto di evitare a tutti i costi uno scontro commerciale aperto. Altri governi, soprattutto quelli dei paesi più vicini geograficamente alla Russia, temevano invece che i rapporti commerciali si potessero guastare, e che ci sarebbe stata un’accelerazione del disimpegno degli Stati Uniti nella difesa. “Non possiamo isolare queste trattative dal resto dei rapporti transatlantici”, ha dichiarato recentemente un alto diplomatico dei paesi nordici.
Cosa accadrà in futuro? “Se troviamo un accordo oggi, la faccenda finirà qui”, ha promesso Trump a Turnberry, “ e passeranno anni prima che sia necessario ridiscuterla”. Ma gli europei restano in allerta. Se c’è un tratto dominante nel carattere del successore di Joe Biden, è sicuramente l’imprevedibilità.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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