Quando ha scelto di congelare gli ovociti Marianna aveva trentasette anni (i nomi delle donne di cui racconta questo articolo sono stati cambiati per proteggere la loro identità). Due anni prima, nel 2020, la relazione che aveva con il compagno con cui conviveva da tempo negli Stati Uniti si era interrotta, e lei aveva deciso di tornare a vivere in Italia. “Ho sempre desiderato avere dei figli, aspettavo che lui si decidesse. E mi sono ritrovata così: single, a trentacinque anni e ad attraversare un periodo difficile”, racconta.
Vivendo negli Stati Uniti aveva sentito parlare del social freezing, la procedura medica che consente di prelevare e congelare gli ovociti per posticipare una gravidanza a un secondo momento preservando la fertilità, anche in assenza di patologie mediche. “Lì è un argomento di discussione come un altro”, ricorda Marianna. “Al tempo ero un po’ scandalizzata da questo atteggiamento. Oggi dico che è una tecnica che dà un sacco di libertà”.
Beatrice , invece, ha iniziato a raccogliere informazioni sul social freezing il giorno dopo aver compiuto trentotto anni. In quel periodo aveva cominciato da qualche settimana una nuova frequentazione, e diventare madre non era nei piani a breve termine. Anzi, per la verità non era mai stato un desiderio troppo presente: “Ero concentrata su altre cose. Poi è successo che ho avuto un ritardo del ciclo mestruale e per la prima volta ho pensato che, se fossi stata incinta, avrei potuto tenerlo. Alla fine non lo ero, ma mi sono decisa a prendere in mano la situazione”.
Dopo diverse ricerche, e basandosi anche sulle informazioni delle sue amicizie all’estero, Beatrice ha deciso di fare la procedura in Spagna. In questo modo, in futuro, potrà ricorrere alla procreazione medicalmente assistita (Pma) anche da single, una possibilità esclusa dalla legge italiana. “Per fortuna in Spagna potevo farmi ospitare da un’amica e mi sono potuta organizzare con il lavoro. Però non tutte possono farlo”.
Come funziona
“Il social freezing è una criopreservazione, cioè una conservazione attraverso il congelamento a bassissime temperature, a scopo sociale. Le donne che ritardano il loro desiderio di genitorialità, che non l’avranno mai o che comunque vogliono posticipare il momento della riproduzione decidono di congelare una parte dei loro ovociti”, spiega Valeria Valentino, ginecologa specializzata in fisiopatologia della riproduzione. Le ragioni possono essere le più varie: questioni lavorative, mancanza di una relazione stabile, altre priorità. Secondo Valentino, “chi ricorre a questa tecnica mette da parte un pacchetto di ovociti, una sorta di tesoretto, in modo che quando poi cercherà una gravidanza più avanti negli anni con tecniche di procreazione medicalmente assistita non dovrà ricorrere a ovociti di donatrici”.
Dopo una serie di esami di base, la donna si sottopone a una terapia ormonale di stimolazione ovarica, che serve a far maturare più follicoli – le piccole sacche piene di liquido, all’interno delle ovaie, in cui maturano gli ovociti – durante un unico ciclo. “Poi, quando è pronta, si aspirano in sala operatoria. Il liquido follicolare viene aspirato e passato al biologo che valuta gli ovociti. Quelli maturi vengono conservati”, aggiunge la ginecologa.
L’intervento è considerato sicuro: “Ha il rischio di emorragia più basso di tutte le procedure di aspirazione dei follicoli. Stiamo ovviamente parlando di donne sane”, dice Valentino. E, secondo gli studi attuali, non ci sono per i nati percentuali di anomalie congenite superiori a quelle di altre tecniche di Pma.
Se gli ovociti adatti al congelamento non sono abbastanza (l’ideale sarebbe almeno una decina), si procede a un secondo ciclo di stimolazione ovarica. “Ovviamente su questo incide l’età della donna: più giovane è, meno ne servono”.
Sia Marianna sia Beatrice hanno fatto due cicli. “Ricordo che ogni sera dovevo fare tre punture diverse, sempre alla stessa ora. Le facevo alle 19, e calcolavo che per un’ora mi sarei dedicata solo a quello: non riuscivo a infilarmi con naturalezza un ago nella pancia”, racconta Marianna.
Oltre a quella per motivi non medici, esiste una crioconservazione fortemente consigliata alle donne con patologie oncologiche o che affrontano trattamenti potenzialmente dannosi per la capacità riproduttiva (come le terapie radianti o gli interventi chirurgici per l’endometriosi).
La differenza fondamentale tra le due procedure è che in Italia la prima è rimborsata dal sistema sanitario nazionale. Il social freezing, invece, è interamente a carico di chi lo sceglie.
Le cifre partono da 2.500 euro per ciclo di stimolazione e prelievo degli ovociti, ma variano a seconda del centro a cui ci si rivolge, e non comprendono i farmaci necessari, che possono far lievitare decisamente la spesa anche fino a cinquemila euro. Per la crioconservazione, invece, servono alcune centinaia di euro all’anno.
Il costo dei medicinali, che variano da persona a persona, è estremamente alto, racconta Beatrice, e rende l’accesso alla procedura quasi proibitivo: “Il farmaco e il dosaggio che mi avevano prescritto per la stimolazione ovarica costa circa 500 euro a confezione, più un altro da 280 euro. Ne ho usato più di una confezione a ciclo, e ne ho dovuti fare due”, dice. “E non sono gli unici farmaci che servono”.
Tra ricerca delle informazioni, esami, impegno fisico e spese, Beatrice afferma che la procedura “non è una passeggiata. Forse è un bene che l’abbia scoperto facendolo, se l’avessi saputo prima magari mi sarei scoraggiata”.
Lo scorso giugno la regione Puglia è stata la prima in Italia a introdurre un bonus di tremila euro una tantum per la crioconservazione degli ovociti a favore delle donne tra i ventisette e i trentasette anni. Per fare domanda, bisognava dimostrare di risiedere nella regione da almeno un anno e avere un Isee pari o inferiore a trentamila euro.
Nel 2021 la Francia ha approvato una legge per rendere gratuito il social freezing nelle strutture pubbliche per le donne tra i ventinove e i trentasette anni. Anche se non è stata risparmiata dalle critiche, la legge ha provocato un’impennata di richieste.
Anche in Spagna i numeri sono alti. La procedura resta privata e non finanziata dallo stato, con costi simili a quelli italiani. Ma molte donne scelgono la Spagna per avere la possibilità di accedere alla Pma anche da single, come ha fatto Beatrice.
Pur in mancanza di dati ufficiali, negli ultimi anni si nota che il fenomeno è cresciuto anche in Italia. “Cinque o sei anni fa, quando il servizio è partito, facevamo dieci o quindici cicli di crioconservazione per motivi non medici all’anno. Oggi quasi un centinaio”, spiega Enrico Papaleo, responsabile del Centro Scienze della Natalità dell’Ospedale San Raffaele di Milano, uno dei tanti centri dove è possibile accedere alla procedura. “All’inizio erano solo donne dai trentasei anni in su, single, che facevano un social freezing diciamo di emergenza. Oggi la media sta arrivando a 33-34 anni. E c’è anche qualche ragazza tra i 25 e i 30 che inizia a prenderlo in considerazione, anche se sono ancora poche. Però l’età giusta sarebbe quella”.
Non si parla di fertilità
Quando Marianna ha finito la procedura di crioconservazione degli ovociti in Italia, a trentasette anni, si è sentita “un po’ una pioniera: ho iniziato a ricevere tantissime chiamate da amiche, e da amiche di amiche, che volevano saperne di più”. In realtà, aggiunge, “mi è stato spiegato che se fatto prima dei trent’anni si hanno più possibilità di conservare ovociti di maggiore qualità. Ecco, forse ci si arriva un po’ tardi, quando ti accorgi che in realtà volevi un figlio e intanto il tempo è passato”.
In effetti, spiega la dottoressa Valeria Valentino, “il momento migliore per farlo sarebbe tra i venticinque e i trentadue anni, o comunque prima dei trentacinque. A trentasette servono 18-20 ovociti maturi per poter avere maggiori garanzie di riuscita, a venticinque si sta tranquille anche con molti meno”.
Conservare gli ovociti “non offre la certezza di riuscire a concepire e procreare un figlio”, ma solo “una ragionevole probabilità che questo accada”, riporta la Fondazione Umberto Veronesi, e può succedere che, “nonostante la disponibilità di un certo numero di ovociti conservati, questi non siano comunque sufficienti a portare a termine una gravidanza”.
I fattori da tenere in considerazione sono il momento in cui gli ovociti sono stati congelati, il loro numero e l’età della donna. Con 24 ovociti si ha un indice del successo totale di procreazione superiore al 90 per cento, spiega la fondazione, e dell’85,2 per cento con 10-15 ovociti, se sono stati prelevati e conservati prima dei trentacinque anni di età. La conservazione di dieci ovociti “offre una probabilità di una nascita per ogni ovocita del 60,5 per cento per le donne sotto i trentacinque anni, ma di solo il 29,7 per cento per quelle oltre i trentacinque”.
Le donne italiane, però, in media arrivano a cercare notizie sulla crioconservazione degli ovociti dopo quell’età. Questo, secondo Valentino, dipende da “un problema di disinformazione”, che tocca la popolazione ma anche i medici: “Sono pochissimi quelli sensibili a questo tema. Ci sono ginecologi e ginecologhe con una grande preparazione, ma che ignorano questa possibilità. Nelle scuole di specializzazione non si parla di social freezing”.
Per Papaleo del San Raffaele, il punto è la consapevolezza generale: “Si discute molto di infertilità di coppia, ma non di fertilità. Quindi finché non si pone il problema, le giovani non sono portate a pensarci”. Secondo una ricerca svolta nel 2021 dall’università di Milano-Bicocca e dall’università di Padova sui temi della procreazione medicalmente assistita, su 608 donne coinvolte il 37,8 per cento avrebbe voluto maggiori informazioni sul social freezing.
Un’altra ragione dell’età più alta però riguarda i costi. “Non tutte le persone possono permettersi a venticinque anni di spendere quelle somme”, aggiunge Valentino. E per molte può restare una cifra proibitiva anche successivamente.
Lo scorso settembre Stiamo Fresche, un collettivo-osservatorio indipendente, ha lanciato un’inchiesta nazionale con un questionario anonimo sulla crioconservazione degli ovuli che ha ricevuto più di 500 risposte. Dall’indagine, il 2 novembre è partita una petizione per fare in modo che il social freezing sia coperto dal servizio sanitario nazionale.
L’idea è partita dall’esperienza personale di Marta Maria Nicolazzi, 31 anni, sociologa di Milano. “L’anno scorso stavo facendo degli esami perché non stavo bene ed è venuto fuori che avevo quattro follicoli, quindi una riserva ovarica ridotta”, racconta. Anche se non aveva un desiderio di maternità, quella notizia “è stata un segnale doloroso. Ci dicono che noi donne siamo destinate a riprodurci, e io mi sono sentita rotta. Così ho iniziato a informarmi”.
In questa ricerca, Nicolazzi si è resa conto di due cose: “La prima è che non esistono dati sulla crioconservazione che non siano legati alla procreazione medicalmente assistita”. E la seconda “è che c’è una fortissima disuguaglianza: al social freezing può accedere solo chi se lo può permettere, mentre manca completamente un’informazione adeguata”.
Un’altra idea di maternità
Tra le critiche al social freezing, c’è quella per cui sarebbe un riflesso delle pressioni sociali e professionali a cui sono sottoposte le donne. In una società e in un mondo del lavoro incapaci di supportare a dovere la genitorialità femminile, le donne preferiscono posticiparla.
Ma c’è un altro elemento. Sebbene le storie di Marianna e Beatrice siano diverse, c’è un denominatore comune nelle loro esperienze: entrambe parlano della possibilità di gestire diversamente l’orizzonte di una eventuale maternità. Anche prescindendo da un percorso di coppia.
Marianna, che nel frattempo ha compiuto quarant’anni, racconta di essersi sentita “veramente forte” quando ha deciso di congelare gli ovociti nel 2022: “Mi sembrava di potermi dare del tempo per pensare a me stessa in quel momento difficile. Sentivo di avere un po’ il futuro nelle mie mani”. Oggi ha un nuovo compagno, al quale ha detto “abbastanza presto di questi diciotto ovociti congelati. Lui si è mostrato entusiasta e ha reagito dicendo che sono stata brava e coraggiosa”. In questo momento stanno provando a concepire con la Pma, “ma quando ho fatto la crioconservazione ho preso anche coraggio e ho cominciato a pensare che avrei potuto avere un figlio da sola”.
Nel libro Senza figli. Scelte, vincoli e conseguenze della denatalità (Laterza), la demografa dell’università di Padova Alessandra Minello inserisce la crescente diffusione del social freezing “tra i segnali più chiari del cambiamento culturale in corso nel rapporto tra le donne e la maternità”. Un cambiamento “che richiede di superare l’idea di maternità come evento naturale, lineare e necessariamente legato a una traiettoria di coppia e a un’età standardizzata”.
Quando ha deciso di fare il social freezing Beatrice non ha coinvolto la persona che stava frequentando nella sua scelta: “L’ho fatto per me. L’ho fatto per comprare tempo”. A distanza di un anno e mezzo, e nuovamente single, dice che aver congelato gli ovociti le ha dato “moltissima serenità. A prescindere da come andrà, mi sembra di aver guadagnato il controllo sulla possibilità di diventare madre. Lo rifarei cento volte, e avrei voluto farlo molto prima”.
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