Alla fine Trump ha avuto la sua “grande e bellissima legge”, dopo giorni di pressioni – e di abituali minacce attraverso la gogna sui social network – sui repubblicani più recalcitranti.
Tutte le cose che aveva fatto finora in politica interna erano ordini esecutivi, cioè decreti presidenziali che non devono passare da camera e senato, quindi questa è la prima legge importante che riesce a far passare al congresso. Generalmente i presidenti appena eletti non hanno molte opportunità per far approvare al congresso grandi progetti di legge, soprattutto quando, come nel caso di Trump, il loro partito ha una maggioranza molto risicata sia alla camera sia al senato. Quindi i primi provvedimenti sono importanti per capire le priorità del presidente e la direzione della sua amministrazione.
Dopo essere stato eletto, nel 2008, Barack Obama spese molto del suo capitale politico per far approvare la riforma sanitaria, la cosiddetta Obamacare, per affrontare un problema molto sentito soprattutto tra i democratici, cioè il fatto che decine di milioni di statunitensi fossero senza assicurazione sanitaria; Joe Biden riuscì a far passare un grande piano di investimenti per la transizione energetica e un altro per rinnovare le infrastrutture. Invece Trump ha puntato tutto sul taglio delle tasse, soprattutto alle fasce più ricche della popolazione, come peraltro aveva fatto durante il primo mandato; ha voluto più fondi per il controllo delle frontiere e per l’espulsione degli immigrati irregolari (129 miliardi di dollari in dieci anni) e per il potenziamento dell’esercito (150 miliardi), sacrificandone invece molti per la sanità e per le energie rinnovabili.
Oltre a questo la legge elimina le tasse sulle mance, che era una delle promesse principali di Trump in campagna elettorale, aumenta le possibilità di detrazioni fiscali e prevede altri aiuti alle famiglie, per esempio a ogni bambino nato fra il 2025 e il 2029 verrà aperto un conto deposito in cui il governo verserà mille dollari e che potrà essere usato quando crescerà (si chiamerà “conto Trump”).
Complessivamente i tagli delle tasse costeranno circa 4.500 miliardi di dollari. In parte le uscite saranno compensate dalla riduzione delle spese, ma la legge sarà finanziata soprattutto da un massiccio aumento del debito pubblico.
Del problema del debito avevo parlato. Ora vale la pena soffermarsi sugli altri aspetti problematici, due più evidenti e concreti, un altro legato all’idea che gli Stati Uniti hanno del loro futuro.
Il primo punto riguarda le disuguaglianze, che secondo gli esperti aumenteranno per effetto della nuova legge. Secondo un’analisi dello Yale budget lab, il provvedimento avrà un impatto regressivo sul reddito delle famiglie, cioè aiuterà chi già guadagna di più e svantaggerà chi ha meno. L’analisi di Yale stima che le modifiche fiscali e i tagli al welfare ridurrebbero il reddito al netto delle imposte del 2,3 per cento, cioè di 560 dollari, per il 20 per cento più povero degli americani. L’1 per cento più ricco vedrebbe un aumento del 2,1 per cento, pari a circa 32mila dollari.
Per contribuire a finanziare i tagli fiscali, il disegno di legge di Trump taglierà del 20 per cento il bilancio federale per un programma di assistenza alimentare che aiuta 40 milioni di americani a basso reddito, cioè il 12 per cento della popolazione statunitense. Gli effetti si faranno sentire molto negli stati che hanno votato in grande maggioranza per Trump, posti mediamente più poveri del resto del paese e dove milioni di persone fanno affidamento sul sostegno del governo. Discorso simile vale per il secondo aspetto problematico, la sanità.
I cambiamenti introdotti riguardano soprattutto Medicaid, il programma di assicurazione sanitaria gratuito per le fasce più povere della popolazione. La riforma prevede che gli adulti senza figli e senza disabilità potranno accedere all’assistenza sanitaria solo dimostrando di aver lavorato almeno 80 ore al mese, e dovranno farlo ogni sei mesi. Secondo stime indipendenti, questo potrebbe privare dell’accesso a Medicaid 11,8 milioni di statunitensi.
Se si aggiunge il fatto che alcuni sussidi previsti dall’Obamacare scadranno alla fine di quest’anno e non sono stati rinnovati, la politica repubblicana potrebbe portare alla perdita della copertura sanitaria per circa 17 milioni di americani nel prossimo decennio, secondo KFF, un centro studi sulle politiche sanitarie. Un minor numero di persone con un’assicurazione sanitaria significherà un minor numero di persone che riceveranno assistenza medica, meno prevenzione e, inevitabilmente, più morti. Nel complesso, gli esperti del centro studi prevedono che il piano repubblicano potrebbe causare ogni anno tra le 8.200 e le 24.600 morti in più.
Poi c’è la questione che riguarda il futuro. La legge approvata dal congresso punta a frenare la produzione di energia rinnovabile negli Stati Uniti. Oltre a eliminare gradualmente i sussidi federali per l’energia eolica e solare entro il 2027, impone anche una nuova accisa sui progetti rinnovabili che usano materiali prodotti in Cina. Visto che le aziende cinesi dominano le catene di approvvigionamento dell’energia verde, una buona parte di tutto lo sviluppo eolico e solare negli Stati Uniti sarà influenzata negativamente dall’imposta. Nel loro insieme, queste misure potrebbero ridurre di più del 72 per cento la quantità di nuova capacità di energia pulita aggiunta alla rete elettrica americana nei prossimi dieci anni.
La scarsità di energia rischia di aumentare i costi dell’elettricità per i consumatori statunitensi (secondo una serie di recenti studi, l’abolizione dei crediti d’imposta federali per l’energia eolica e solare potrebbe far aumentare la bolletta energetica media delle famiglie fino a 400 dollari all’anno entro un decennio) e potrebbe rendere meno competitive le aziende americane in alcuni dei settori in più rapida crescita, a cominciare dall’intelligenza artificiale, che ha bisogno di enormi quantità di nuova energia per alimentare i centri dati (per costruire impianti eolici e solari servono molto meno tempo e meno soldi che per fare nuove centrali a gas naturale, e l’energia che se ne ricava è spesso più economica).
Per Trump questo non è un problema, perché fonda la sua politica energetica su un calcolo semplice: sono ancora i combustibili fossili a far girare il mondo e gli Stati Uniti, che sono il più grande produttore mondiale di petrolio e il più grande esportatore di gas naturale, sono nella posizione perfetta per approfittarne. Quello che bisogna fare è quindi cercare altro gas e petrolio (drill, baby drill) trivellando nei posti dove finora non si poteva a causa dei vincoli ambientali, costruire nuovi oleodotti per trasportare ciò che viene estratto e convincere gli altri paesi a comprare combustibili americani (usando i dazi come arma di ricatto).
Questa strategia ha un doppio obiettivo: garantire l’indipendenza energetica degli Stati Uniti e usare le vendite di energia ad altri paesi per proiettare il potere americano nel mondo. Anche Pechino sta cercando di fare lo stesso, ma con un approccio che non potrebbe essere più diverso.
Ne parla un articolo uscito sul New York Times: “La Cina punta su un mondo che funziona con l’elettricità a basso costo prodotta dal sole e dal vento e che dipende dalle aziende cinesi per pannelli solari e turbine ad alta tecnologia a prezzi accessibili”. La Cina continua a bruciare più carbone del resto del mondo e, a differenza degli Stati Uniti, non dispone di grandi quantità di petrolio o gas facilmente accessibili, quindi la strada per l’indipendenza energetica passa necessariamente dallo sviluppo delle energie rinnovabili.
La transizione sta avvenendo a velocità vertiginose. Oltre a dominare la produzione mondiale di pannelli solari, turbine eoliche, batterie, veicoli elettrici e molte altre industrie di energia pulita, con il passare dei mesi Pechino sta ampliando il suo vantaggio tecnologico.
La più grande casa automobilistica cinese, il più grande produttore di batterie e la più grande azienda di elettronica hanno introdotto sistemi in grado di ricaricare le auto elettriche in soli cinque minuti, eliminando quasi completamente i lunghi tempi di ricarica, uno dei problemi più fastidiosi dei veicoli elettrici. La Cina detiene quasi 700mila brevetti nel settore dell’energia pulita, più della metà del totale mondiale.
Inoltre il paese asiatico sta adottando misure che potrebbero rendere difficile per gli altri paesi, in particolare per gli Stati Uniti, recuperare il terreno perso. Ad aprile Pechino ha limitato l’esportazione di terre rare e magneti, elementi fondamentali per la fabbricazione di prodotti tecnologici, e potrebbe usare il suo quasi monopolio in questo settore per mettere il resto del mondo di fronte a una scelta, un po’ come fa Trump con i dazi: acquistate la tecnologia cinese per l’energia verde o rassegnarsi a non averla.
Questo dominio cioè consente alla Cina di espandere la propria sfera di influenza vendendo e finanziando tecnologie energetiche in tutto il mondo. E le nuove relazioni le permettono di stringere legami finanziari, culturali e persino militari in un momento di grandi cambiamenti delle alleanze geopolitiche.
Negli ultimi anni i pannelli solari, le batterie e i veicoli elettrici a basso costo prodotti in Cina hanno reso possibile il passaggio a tecnologie più pulite per molte grandi economie. Le aziende cinesi stanno costruendo turbine eoliche in Brasile e veicoli elettrici in Indonesia. Nel nord del Kenya, gli sviluppatori cinesi hanno realizzato il più grande parco eolico dell’Africa. E in tutto il continente, in paesi ricchi di minerali necessari per le tecnologie di energia pulita come lo Zambia, i finanziamenti cinesi per ogni tipo di progetto hanno lasciato alcuni governi profondamente indebitati con le banche cinesi.
Pechino sta anche lavorando ad accordi per fornire reattori nucleari a paesi come la Turchia, che un tempo facevano affari principalmente con gli Stati Uniti e l’Europa. In Pakistan, la Cina sta già costruendo quella che sarà la più grande centrale nucleare del paese.
“Gli Stati Uniti”, conclude il New York Times, “hanno ancora molti clienti per le loro enormi riserve di petrolio, gas e carbone. Circa l’80 per cento del fabbisogno energetico mondiale è ancora soddisfatto dai combustibili fossili. Ma si prevede che questa percentuale diminuirà notevolmente. L’Agenzia internazionale per l’energia stima che entro la metà del secolo il petrolio, il gas e il carbone scenderanno al di sotto del 60 per cento del fabbisogno energetico mondiale. E la Cina è pronta a raccogliere il testimone”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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