Bisogna dirlo: l’ultima di campionato l’Fk Guber di Srebrenica l’ha vinta in scioltezza. Un secco tre a zero sull’Herce­govac di Bileća, che è parso nettamente inferiore sul piano del gioco e forse anche meno motivato, considerato che era già salvo. Per i ragazzi di Srebrenica era tutt’altra storia. Si giocavano il futuro. Retrocedere nella terza divisione della Repubblica Srpska – l’entità serba dello stato bosniaco – significava finire nel girone infernale dei paesini e dei villaggi dove gli uomini indossano ancora le vecchie mimetiche di trenta e passa anni fa, dove ti può arrivare uno sputo addosso mentre batti un fallo laterale, dove a chi porta sulla maglietta un cognome musulmano urlano “turco di merda” e al suo compagno di squadra serbo “puttana traditrice”.

Esattamente quello che succedeva fino a qualche anno fa quando il Guber, sempre in seconda divisione, andava a giocare nei centri più grandi affacciati sul fiume Drina: città come Višegrad, Bijeljina, Zvornik. Dalle tribune partiva il classico coro “noz, zica, Srebrenica”(coltello, filo spinato, Srebrenica) oppure il più bellicoso “Mladić-Mladić-Mladić”, in onore del boia di Srebrenica, il generale serbobosniaco Ratko Mladić, che esattamente trent’anni fa ordinò l’eliminazione di ottomila uomini e ragazzi musulmani bosniaci. Molti di loro furono radunati proprio sul campo di calcio del Guber prima di essere trasferiti per il massacro in luoghi appena più appartati e poi sepolti con le ruspe nelle fosse comuni.

Alcuni ragazzi più grandi, come il capitano e regista dal sinistro di velluto Aljo Smajlović, per quelle trasferte grondanti odio ci sono passati. “Ora è molto meglio, siamo visti quasi come un club normale”, mi dice prima dell’incontro. “Ma retrocedere vorrebbe dire rivivere quell’incubo. Non so quanti di noi rimarrebbero in squadra, anche se il Guber è il nostro unico grande amore. È l’unica ragione per non scappare da Srebrenica”.

Le vecchie foto

Nella saletta dei trofei e delle riunioni, che serve anche da deposito per i palloni e la calce per tirare le righe sul campo, Safet Merdzić, 39 anni, ex calciatore e oggi responsabile delle giovanili, mi confessa che il problema è anche economico. Le casse sono quasi vuote e in caso di retrocessione bisognerebbe investire un po’ di soldi per scalare la classifica e risalire di categoria. Soldi necessari, si scopre, non solo per tirare avanti con rimborsi spese, divise eccetera, ma anche per non avere contro le terne arbitrali serbe. “È una delle umiliazioni che bisogna mettere in conto”, commenta amaro un dirigente.

Mi mostrano video di fan celebri: i ricchi campioni bosniaci che giocano nelle grandi società europee e che si dicono vicini alla squadra della città martire, all’unico club della Repubblica Srpska che si ostina a rimanere multietnico, nonostante il macigno irremovibile del genocidio. Ci sono Edin Džeko, Miralem Pjanić, Anel Hadzić, generosi di belle parole e di promesse. “Ma nessuno che faccia mai un bonifico”, dice Safet con un sorriso amaro. È lui il più teso prima della partita. Pensa ai ragazzini che allena. “Perdere potrebbe significare la fine del Guber dopo cent’anni”, spiega. “Quello che lo ha reso speciale è certamente il nostro passato, quel tornado di disumanità che ci travolse Srebrenica nel 1995, ma anche il fatto di essere l’unica occasione per questi ragazzi di credere nella vita, diventare amici. Da queste parti il calcio serve a dimenticare la realtà, indipendentemente dalle radici della tua famiglia”.

I segni della guerra a Srebrenica, maggio 2025 (Nanni Fontana)

Safet racconta che quando lui giocava, l’allenatore era serbo. Una volta a Bijeljina si stava mettendo male: qualcuno urlò “ammazza il turco”. Il mister s’avventò verso le gradinate, solo contro decine di scalmanati. “Cominciate da me”, li sfidò. “Essere una squadra multietnica vuol dire convivere con un tabù, resistere grazie a un tabù. Che male c’è? È calcio, non politica. Calcio e basta, zero passato, storie, colpe, rancori”, continua. “Quando i ragazzini si sentono urlare contro cose tremende, imparano a non ascoltare. E sai chi sono i più sordi? I serbi. Mai una reazione quando gli danno dei traditori. Sono così orgogliosi del loro Guber”.

Si guarda intorno, il coach dei pulcini e degli allievi. Le polaroid con i colori bianco e celeste sbiaditi. Le foto delle formazioni incorniciate in bianco e nero. La squadra di uno degli ultimi campionati prima del massacro: il secondo accosciato da destra con la mano sulla fronte per farsi ombra è Muharem Mujčić, detto Muke, il cui corpo non è mai stato trovato; al suo fianco c’è Salko Hublić, detto Hegel, ragazzone dal sorriso beffardo, identificato in una fossa comune.

“Con la guerra abbiamo perso i vecchi trofei e gagliardetti. Hanno spaccato e bruciato tutto”, dice Faruk Smajlović, la colonna portante della società, quello che fa le righe sul campo, prepara il tè, elemosina fondi e parla ai ragazzi nello spogliatoio. Con la sua rock band, gli Afera, ha composto l’inno del Guber, sparato a manetta nel riscaldamento prepartita: “Che si canti e che si pianga mentre il nostro Guber sta combattendo la sua battaglia”.

Pallonate e fantasmi, un’aquila plana in cielo giocando con le correnti d’aria in alto sopra il campo. Il cemento delle gradinate è marcio, spuntano ferri come tendini scoperti, le poche case affacciate sul lato della strada che fende la vallata portano i segni delle granate, i rattoppi con la malta sembrano grandi margherite grigie. Sullo sfondo, verso est, dietro la porta degli ospiti, si staglia esile e bianchissimo un minareto, sentinella sul memoriale e sul cimitero che si apre dopo qualche curva: 44mila metri quadrati con 6.671 steli di marmo piantate nell’erba, quelle con i nomi delle vittime identificate. Il mese, l’anno e il versetto del Corano sono sempre gli stessi: “Non dite che sono morti quelli che sono stati uccisi sulla via di Allah, perché invece sono vivi e non ve ne accorgete”.

La collina si sporge quasi a invadere gli spalti traballanti, il verde è tetro, nonostante la luce smagliante di giugno: più che un bosco è una giungla pluviale. Eppure i disgraziati in fuga dalle belve la risalivano aggrappati alle radici, prima di essere braccati tra i faggi, gli ontani e i carpini.

Eppure qui – sulle due metà del campo da calcio – s’è sempre seminata la pace.

La cavalcata dell’89

L’eco della prima guerra mondiale – scoppiata a Sarajevo, appena oltre l’altopiano di Romanjia – rimbombava ancora nelle gole della Bosnia quando nel 1924 due contadini, uno ortodosso e uno musulmano, donarono i loro poderi confinanti ai minatori di bauxite perché si distraessero con la palla nei giorni di riposo. Per decenni il Guber è stato un club di provincia come tanti in Jugoslavia, terra di calcio epico, piena di talenti anarchici, chiamata il “Brasile d’Europa”. Ai tempi di Tito si veniva qui con le corriere per curarsi con le acque della sorgente Crni Guber. C’è ancora una romantica stradina in acciottolato che dalla vecchia moschea di Srebrenica penetra nel fitto del bosco: quattordici fonti sgorgano dalla roccia, acque amare e ferruginose contro le malattie della pelle, l’anemia, l’ulcera. È la colonna sonora di Srebrenica: ovunque ti giri, gorgoglia qualche torrentello color aranciata.

L’Fk Guber compare nei titoli dei giornali jugoslavi solo nel 1989: scontate le battute sulle qualità miracolose di una squadra che si chiama come le bottiglie dell’acqua curativa esposte sugli scaffali di tutte le farmacie del paese. Macina vittorie nella coppa Maresciallo Tito, elimina il Borač di Banja Luka, Il 2 agosto 1989 va in trasferta a Podgorica (che allora si chiamava Titograd), in Montenegro, contro il Budućnost. Ottavi di finale. Manca poco al crollo del muro di Berlino, ma le scosse fanno già tremare le repubbliche della federazione e i diversi gruppi etnici. Solo un mese prima il presidente serbo Slobodan Milošević ha pronunciato l’incendiario discorso per i seicento anni della mitologica battaglia contro i turchi sulla piana dei Merli, in Kosovo: “Altre battaglie abbiamo di fronte. Non sono armate, ma non possiamo escludere che lo saranno”.

L’inizio dell’ultima partita di campionato tra Fk Guber e Fk Hercegovac, Srebrenica, maggio 2025 (Nanni Fontana)

La partita termina uno a uno. Si va subito ai rigori. In porta per il Guber c’è Jusuf Maladzic, il giocatore più anziano; il rigore decisivo per la squadra di casa lo tira il più giovane in campo, Predrag Mijatović, fresco di vittoria ai Mondiali juniores con la Jugoslavia, futura stella del Partizan Belgrado, del Real Madrid e della Fiorentina. Solo un paio di giorni dopo, durante i festeggiamenti, a Srebrenica piomba la notizia dell’errore arbitrale: bisognava mandare le squadre ai supplementari. “Davano per scontata la nostra sconfitta. Avevano fatto cominciare la partita di sera, stava calando il buio e non funzionava l’illuminazione”, racconta Nermin Pasalić, 58 anni, vecchia gloria di quell’incontro. “E poi l’aria era già avvelenata: non bisognava favorire i bosgnacchi”, musulmani. Due settimane dopo la partita si rigioca a Srebrenica, il Guber vende cara la pelle, ma cede proprio nei minuti finali.

Al campo i ragazzi accolgono Pasalić con una certa soggezione, qualcuno arrossisce nell’abbraccio. E chi s’aspettava che oggi ci fosse anche lui, il “giaguaro”, l’ala leggendaria, a dare la carica nello spogliatoio? Nonostante la sigaretta tra le labbra e la pelata, sembra ancora capace di balzi felini, del suo celebre doppio passo. Dopo la cavalcata con il Guber nella coppa Maresciallo Tito, diventò professionista con il Tuzla. Ma per poco, perché nella primavera del 1992 in Bosnia nessuno tagliava più l’erba dei campi da calcio. I serbi aprivano, invece, campi di prigionia: proprio qui, lungo la Drina, c’era il mattatoio del comandante paramilitare serbo Arkan e dei suoi volontari tagliagole, reclutati tra gli ultras degli stadi di Belgrado.

Con il vecchio bomber Pasalić – promessa azzoppata dalla guerra – constatiamo come il calcio abbia funzionato da detonatore nella disgregazione jugoslava, come il contagio nazionalista sia partito dalle curve. A cominciare dalla guerriglia scoppiata il 13 maggio 1990 a Zagabria, in Croazia, dove la Dinamo, la squadra di casa, giocava con la Stella Rossa di Belgrado. Gli scontri tra tifosi arrivarono anche in campo e il capitano dei croati Zvonimir Boban prese a pedate un poliziotto. Lo psichiatra Radovan Karadžić, leader politico dei serbobosniaci, ed ex medico sportivo della Stella Rossa, era così ossessionato dal pallone che durante la latitanza (era ricercato per crimini di guerra) riuscì a vedere una partita allo stadio di San Siro, a Milano. Durante la partita tra Serbia-Montenegro e Bosnia del 2005, a Belgrado, mezzo stadio si mise a scandire “hvala Ratko”, grazie Ratko Mladić. E lui, il macellaio di Srebrenica, dov’era? Proprio lì, allo stadio, a tifare contro i “turchi”. Lo avevano scoperto – troppo tardi – gli agenti al servizio di Carla Del Ponte, la procuratrice del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja.

Il memoriale delle vittime di Srebrenica a Potočari, maggio 2025 (Nanni Fontana)

“Però vi siete dimenticati che c’è anche il nostro calcio, il nostro Guber, la nostra resistenza attiva”, interviene Faruk, malinconico e ottimista, mentre fa ripartire l’inno dall’amplificatore. Va bene Faruk, ma cosa successe allora? Com’è che finì la meravigliosa eresia del Guber multietnico? Gli sguardi si fanno vaghi, le risposte sono forse indicibili. Nessuno vuole parlare di come in poche ore i destini di quei compagni di squadra, musulmani e serbi, si separarono, quando su Srebrenica calò dalle montagne come un gas nervino l’odio fratricida. Quando il campo diventò il bivacco dei paramilitari di Arkan.

Dopo l’eccidio

Come andò nel dopoguerra me l’ha raccontato invece Damir Bektić, l’imam di Srebrenica. “Quando le prime famiglie di musulmani cominciarono a tornare, intorno al 2002, i bambini serbi giocavano in una metà del campo e i bosgnacchi nell’altra. E sai come funziona tra ragazzini… La palla finiva spesso dall’altra parte, all’inizio veniva restituita malamente, poi passata meglio, qualche accenno di dribbling, finché finirono per giocare insieme la prima partitella. A una squadra mancava il portiere, all’altra una punta. E per vincere bisogna passarsi la palla. Poi quando si segna ci si abbraccia”. Rientrarono anche gli ex biancocelesti degli anni ottanta. Il vecchio portiere Jusuf Maladzic, l’eroe di Podgorica, un giorno fu visto mentre sistemava le reti delle porte. Da Tuzla tornò anche Pasalić, il giaguaro, per seppellire il padre, identificato tra le vittime dell’11 luglio 1995. E prese una decisione storica. Insieme a un ex calciatore serbo nel 2005 rifondò l’Fk Guber 1924, mettendo nero su bianco nello statuto l’impegno a continuare a essere un club per tutti: anche se gli accordi di pace di Dayton avevano di fatto accettato la pulizia etnica imposta dalle milizie di Karadžić e Mladić, includendo Srebrenica nella parte serba della Bosnia; anche se le fosse comuni non smettevano di restituire migliaia di resti umani; anche se i musulmani erano diventati minoranza a casa loro.

Per i primi fondi bussarono ai Paesi Bassi, messi alla gogna internazionale per le gravi responsabilità dei suoi caschi blu negli eventi che portarono al genocidio. Si scoprì che il governo olandese aveva addirittura risarcito il Dutchbat, il battaglione olandese dispiegato in Bosnia, “per lo stress postraumatico”. Potevano almeno pagare le docce e quel che serviva per iscriversi al campionato.

“Sono certo che il babbo sarebbe stato anche lui tra i rifondatori insieme a Pasalić. Ancora oggi mi raccontano che erano stati una coppia d’attacco micidiale prima della guerra, negli anni del grande Guber”, dice Irvin Mujčić, 38 anni, figlio di Muharem detto Muke, mai più ritrovato dopo il luglio 1995. Il Guber abita i suoi primi ricordi: lui alla partita con il nonno, che porta uno sgabellino pieghevole per il nipote; il papà che lucida gli scarpini o che allena amorevolmente i pulcini. Irvin Mujčić vive nella foresta. Per incontrarlo bisogna salire da Srebrenica fino alla groppa del monte Kak e poi al villaggio di Kasapic, una ventina di case abbandonate, divorate dall’edera e dai rovi, con i tetti sfondati. Restano i buchi delle granate e il nero degli incendi. I ruderi sembrano vasi giganti di pietra da cui spuntano le chiome degli alberi nati dopo la guerra.

Sparse sui poggi di Kasapic vivevano duecento persone: i loro nomi sono incisi nel marmo all’ingresso dell’abitato. Irvin dice che non fanno parte del conteggio del genocidio. “Prima che partissimo, nel 1992, Srebrenica aveva trentottomila abitanti, ora ufficialmente sono undicimila, ma a vivere davvero nel distretto non siamo più di cinquemila. Nessuno vuole vivere in un cimitero”, dice Irvin. Come i reduci e i sopravvissuti del Guber, ha deciso di sfidare i fantasmi. Nel mezzo della foresta ha costruito con le sue mani un villaggio in legno e pietra, dove ospita soprattutto studenti che arrivano da tutta Europa: vuole offrirgli un’immagine nuova di Srebrenica, che combini il culto della memoria con l’immersione nella spropositata bellezza della natura di quest’angolo di Bosnia. “L’unico modo per chiudere una guerra è ricostruire, è questo il compito della mia generazione. Come hanno fatto quelli del Guber: trasformare il dolore in azione. Quest’ultima partita di campionato rappresenta proprio questo: il tentativo di mantenere una promessa di speranza”.

Irvin è tornato a casa per riprendere il filo dell’esistenza ed elaborare un lutto che, da esule, lo ingolfava di dolore. Con la madre, il fratello e la sorella erano fuggiti in Italia nei primi giorni di guerra, nell’aprile 1992. Aveva cinque anni: “Quando salutammo papà eravamo sicuri che ci saremmo rivisti dopo qualche settimana. La guerra in Bosnia non poteva durare, figurarsi a Srebrenica poi, dove non c’era mai stato un problema: pensa che la città aveva il record di matrimoni misti. Papà era rimasto a presidiare la casa. Era tutto quello che avevamo”. Racconta che si tenevano in contatto usando le frequenze dei radioamatori: “Si parlava di calcio, mi chiedeva degli allenamenti nella squadra dove giocavo, vicino a Brescia. Ai Mondiali del 1994 tifò Italia, pensando a noi. Con un paio di amici seguiva le partite importanti portando in spalla un televisore fino alla cima del monte, dove c’era un ripetitore. Rischiavano la vita”.

Il Guber non c’era già più, ma a Srebrenica si palleggiava e si crossava lo stesso. Una delle peggiori stragi prima del genocidio avvenne al campetto di cemento davanti alle scuole, all’ingresso del centro abitato. “Era l’aprile 1993”, racconta Irvin. “Srebrenica era stata dichiarata zona sicura, ma mancava ancora la risoluzione dell’Onu. I ragazzi erano tranquilli, e avevano organizzato un torneo. C’erano cinquecento studenti. I serbi lanciarono due granate e fecero più di sessanta morti”.

Ospiti sgraditi

Fin dal 1992 la città era stata un intralcio nei piani di Karadžić e Mladić, un’isola nemica nel cuore della Repubblica Srpska: ogni tentativo di conquistarla era stato respinto dalla milizia musulmana al comando di un uomo coraggioso quanto spietato, Naser Orić, ex guardia del corpo di fiducia di Milošević. Il 7 gennaio 1993, giorno del Natale ortodosso, Orić e i suoi fecero un’incursione a sorpresa nella valle della Drina, uccidendo decine di civili serbi e bruciando interi villaggi.

La ritorsione fu devastante: già allo stremo, Srebrenica si riempì di profughi. Mladić impose il blocco degli aiuti umanitari. L’area avrebbe dovuto essere una safe zone delle Nazioni Unite. Mese dopo mese, anno dopo anno aumentava il numero degli sfollati, nel 1995 arrivarono a quarantamila. Fuggiti a Srebrenica per salvare la pelle, la città diventò la loro trappola. Un lager. L’Europa era in spiaggia in quel luglio di trent’anni fa, la Bosnia non faceva più notizia, la guerra stava finendo. E Bruxelles, le Nazioni Unite, la Nato? Anni dopo si è capito che si era lasciato che il massacro avvenisse. Ci sono i filmati in cui il generale francese Philippe Morillon, capo dei caschi blu dell’Onu, dice ai disperati: “Tranquilli, sarete protetti”. È la cronaca di uno sterminio annunciato. Gli olandesi rimasero a guardare. Abusarono delle donne, bevvero grappa con i paramilitari serbi dell’unità degli Škorpioni.

Trent’anni fa

◆ Nel luglio 1995 a Srebrenica, una città nell’est della Bosnia Erzegovina, i soldati serbobosniaci guidati dal generale Ratko Mladić hanno massacrato circa ottomila uomini e ragazzi bosniaci di religione musulmana. Migliaia di persone si erano rifugiate nella città, designata “zona di sicurezza” dalle Nazioni Unite, per sfuggire alla pulizia etnica in corso nella regione. L’11 luglio, quando i serbobosniaci hanno conquistato Srebrenica dopo averla assediata per tre anni, i comandanti dell’Onu e della Nato hanno respinto la richiesta di attacchi aerei per fermarli. E i caschi blu olandesi non hanno fatto nulla per difendere la popolazione. Quello di Srebrenica è il più grave massacro avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale ed è considerato un genocidio dalla giustizia internazionale.


Quando l’11 luglio 1995 le truppe di Mladić occuparono la città, la gente terrorizzata si riversò nella base dei caschi blu. “Difendeteci”, imploravano, “ci avete preso le armi, dunque ora tocca a voi difenderci”. Ma i soldati dell’Onu dichiararono la loro impotenza. Non avevano l’autorizzazione a sparare. E il panico si diffuse. Mladić convocò in un albergo due ufficiali olandesi e per intimidirli fece sgozzare un maiale nel cortile. Ottenne tutto ciò che voleva: la consegna dei maschi sani e abili, perfino la benzina per trasferirli. La gente era ammassata intorno alla sede dell’Onu a Potočari, poco fuori Srebrenica, dove oggi sorge il memoriale dell’eccidio. Gli uomini furono portati via e caricati sui camion.

A Irvin hanno raccontato che il papà si era rifugiato nei boschi insieme al fratello, e che poi aveva cambiato idea: “Quel che succederà agli altri, che succeda anche a me”, avrebbe detto. Forse poteva salvarsi, chissà. “Ho saputo che era con un gruppo di compaesani, poi è stato riconosciuto da uno dei paramilitari, un avversario affrontato quando giocava nel Guber. ‘Ehi, Muke, come te la passi? Dai, alla svelta, sali sul camion’. E lui è salito”.

Srebrenica continua a essere un’isola di terra nemica nella Repubblica Srpska. Ci sono quattro moschee, ma nessuno sa spiegarmi perché non si sente mai, nemmeno il venerdì, la chiamata alla preghiera del muezzin, mentre invece le campane della chiesa ortodossa risuonano quotidianamente. La convivenza sembra reggersi su equilibri insondabili. A differenza che in altri centri lungo la statale che costeggia la Drina, a Srebrenica le strade sono presidiate dal tricolore serbo che sventola sui lampioni. Meno del 10 per cento dei poliziotti è musulmano, stessa cosa alle poste e nelle scuole. “Siamo ospiti sgraditi, questa è la realtà”, dice un dirigente del Guber. “Srebrenica è stata consegnata nelle mani di gente che ha commesso crimini, molti ex miliziani oggi sono ufficiali di polizia o funzionari pubblici. D’altronde i numeri parlano chiaro: nella regione circa ventimila persone parteciparono al genocidio. L’esperienza del Guber è un monito: viviamo insieme solo grazie a noi persone comuni, musulmani e ortodossi”. Fino all’ultimo giorno di mandato l’ex sindaco ha negato il genocidio, usando un argomento che è il mantra di Banja Luka, la capitale della Repubblica Srpska, ripetuto in continuazione dal leader serbobosniaco Milorad Dodik, fantoccio di Belgrado e anche di Vladimir Putin: “Ma quale genocidio, è un mito inventato. Non ce l’avevano e se lo sono fabbricato”.

Più forti del dolore

I ragazzi del Guber hanno fatto una grande partita, la stagione è salva, l’aquila è ancora in cielo, altissima sopra il campo. Per festeggiare ci si sposta di poche centinaia di metri, fino al motoraduno organizzato, come ogni primavera, dal club dei centauri di Srebrenica. Come l’Fk Guber, anche loro sono rinati nel 2005, e con lo stesso spirito di “resistenza attiva”. Sul grande prato ci saranno un migliaio di moto, targhe croate, slovene, bosniache, e molte anche serbe. Rock duro, odore di griglia, di grappa, di vecchia Jugoslavia. Azra e Mustafa Husejnović arrivano dai Paesi Bassi, dove si sono rifatti una vita, hanno due figli e mestieri importanti. Tornano a Srebrenica più volte all’anno. “Solo qui proviamo davvero che cosa vuol dire pace”. Mustafa ha perso quasi cento parenti nel 1995, sono tutti al sacrario, incluso lo zio Salko Hublić, detto Hegel, il terzino del Guber. Salta fuori che nei Paesi Bassi hanno un amico biker che nel 1995 era nel Dutchbat, il battaglione olandese dei caschi blu. “Non è stato facile condividere le nostre storie, ma ora siamo legatissimi. Non vuole venire al raduno, però quando torniamo gli facciamo vedere le foto e si commuove anche lui”, dice Azra. “In fondo i soldati olandesi erano impotenti, non potevano fare molto di più, no? Quelli che non hanno agito stavano altrove, nelle capitali, con un cocktail in mano”.

Gli chiedo qual è la ricetta per essere ciò che sono. Azra guarda Mustafa negli occhi per trovare la risposta: “Essere più forti del dolore, restare esseri umani”. ◆

Marzio G. Mian è un giornalista italiano, autore di Volga Blues (Feltrinelli 2024).

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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati