Dall’enorme bunker nel cuore di Los Angeles provengono rumori metallici. All’interno ci sono decine di migranti senza documenti, arrestati nel corso delle ultime settimane nelle retate ordinate dall’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Gli agenti dell’immigrazione hanno preso d’assalto luoghi di lavoro, tribunali e strade. Le persone arrestate colpiscono le pareti e le sbarre delle loro celle con oggetti vari per mostrarsi solidali con la folla che da tre giorni si presenta davanti all’edificio per protestare contro la politica migratoria del presidente.
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Dalle prime ore dell’8 giugno il centro di detenzione federale è difeso da decine di soldati della guardia nazionale, un corpo militare schierato da Trump il giorno prima. Nonostante il parere contrario delle autorità della California, Trump ha inviato duemila soldati in una delle città con più immigrati di tutto il paese. I politici locali ritengono che la presenza dei militari sia una provocazione di Washington. Il governatore dello stato, il democratico Gavin Newsom, ha chiesto al segretario alla difesa di Trump, Pete Hegseth, di richiamare i soldati, invano.
Nel pomeriggio dell’8 giugno centinaia di persone si sono presentate davanti alla sede dell’amministrazione comunale per protestare anche contro la loro presenza. “Fuori l’Ice (la polizia dell’immigrazione) dalle nostre comunità!” e “Se vengono per uno, verranno per tutti” erano tra gli slogan più diffusi sui cartelli mostrati dai manifestanti, insieme a bandiere degli Stati Uniti, del Messico, del Guatemala e del Salvador.
Esercitare i diritti
La manifestazione è stata la più partecipata nei tre giorni di proteste sociali che hanno animato Los Angeles. “Siamo scesi in strada perché i nostri genitori hanno vissuto tutta la vita nell’ombra”, spiega Diego, statunitense di trent’anni nato a Montebello, una cittadina a est di Los Angeles dove gli ispanici rappresentano il 78 per cento della popolazione. I genitori di Diego, che fa il lavapiatti, sono originari del Salvador e del Guatemala. Lui è nato negli Stati Uniti e vuole esercitare i suoi diritti. I giorni precedenti non aveva potuto manifestare perché era impegnato in turni di dieci ore nel ristorante dove lavora. “Bisogna dirlo forte e chiaro: non tutti quelli che vivono qui sono clandestini o criminali”, aggiunge.
L’attenzione si è concentrata sui soldati della guardia nazionale che hanno formato un cordone invalicabile intorno al centro di detenzione insieme agli agenti del dipartimento per la sicurezza nazionale. I soldati erano armati con scudi, bastoni di legno e fucili non letali, ma anche con armi da fuoco. Durante la giornata, però, il loro ruolo è stato quello di testimoni.
I protagonisti delle tensioni sono stati infatti gli agenti della polizia di Los Angeles. “Dichiaro che questo assembramento è illegale. Tutti i presenti devono allontanarsi immediatamente, altrimenti saranno arrestati”, minacciava in spagnolo un poliziotto. Gli agenti in assetto antisommossa hanno sparato proiettili di gomma contro i manifestanti, che hanno risposto lanciando petardi, pietre e bottiglie d’acqua. Qualcuno ha verniciato o bruciato i taxi elettrici senza conducente della compagnia Waymo. Nel corso della giornata le autorità hanno arrestato 27 persone.
Una ragazza che indossava una maglietta della nazionale messicana si è lanciata in sella alla sua moto contro gli agenti, che hanno aperto il fuoco con armi non letali. È tra le persone arrestate nel terzo giorno di proteste. “Quando eravamo la classe operaia, in questo paese ci amavano. Ora che siamo tanti è un problema e ci attaccano. Non ci vogliono più qui!”, ha dichiarato la ragazza, di padre messicano e madre portoricana. Mentre parlava con i giornalisti era ammanettata.
Già in inverno, dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump e del suo programma contro l’immigrazione, la città californiana era stata teatro delle prime proteste in solidarietà con i migranti. All’inizio di febbraio, appena dieci giorni dopo l’inizio del secondo mandato del presidente repubblicano, decine di persone avevano marciato con la bandiera messicana nelle stesse strade dove l’8 giugno hanno sfilato migliaia di manifestanti.
Le bandiere straniere scatenano l’ira del movimento Maga (Make America
great again, lo slogan del trumpismo). “Dato che amano tanto il Messico, ce li rimandiamo volentieri”, ha scritto su X Charlie Kirk, figura influente tra i sostenitori di Trump.
◆ Il 6 giugno 2025, dopo che gli agenti dell’immigrazione hanno arrestato decine di presunti immigrati irregolari, a Los Angeles, in California, sono scoppiate le proteste della popolazione locale. Anche se le manifestazioni sono state in larga parte pacifiche e la polizia di Los Angeles diceva di avere la situazione sotto controllo, il 7 giugno il presidente Donald Trump ha ordinato l’invio di duemila soldati della guardia nazionale, il principale corpo di riservisti dell’esercito statunitense.
◆Il 9 giugno Trump ha alzato ancora il livello dello scontro: ha richiamato altri duemila riservisti e settecento marines (il corpo di fanteria della marina) e ha fatto capire di voler invocare l’Insurrection act, una legge del 1807 che dà al presidente la possibilità di ricorrere all’esercito sul territorio nazionale in circostanze straordinarie.
◆Dopo cinque giorni di proteste, la sindaca di Los Angeles Karen Bass ha imposto il coprifuoco. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno la polizia ha arrestato almeno cinquanta persone accusate di aver violato l’ordinanza. Intanto le proteste si sono estese ad altre città, tra cui New York, Boston, Atlanta, Chicago, Austin, Dallas, San Francisco e Filadelfia.
◆Dall’inizio della presidenza, Trump ha adottato una serie di misure per ridurre drasticamente l’immigrazione sia regolare sia irregolare, e per creare un clima di paura e incertezza tra gli stranieri che già vivono negli Stati Uniti. Ha cancellato la possibilità di chiedere asilo al confine con il Messico; ha vietato l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da dodici paesi, soprattutto africani e mediorientali; ha sospeso il rilascio di nuovi visti per studenti internazionali; ha messo fine al programma di protezione temporanea per i cittadini di paesi a rischio; ha invocato una legge del 1798 per espellere cittadini venezuelani sospettati di appartenere a bande criminali. Molte di queste persone sono detenute in una prigione di massima sicurezza nel Salvador senza accuse formali.
In mezzo al trambusto
Los Angeles è la seconda città al mondo per numero di messicani, dopo Città del Messico. Le autorità messicane hanno preteso il rispetto dei diritti dei loro connazionali detenuti.
Negli Stati Uniti le cose sono cambiate da febbraio. Nei primi quattro mesi di mandato di Donald Trump, l’Ice ha messo a regime la macchina delle espulsioni programmando di arrestare ogni giorno tremila migranti senza documenti. Oggi l’obiettivo è sempre più vicino. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, secondo il dipartimento per la sicurezza nazionale, gli arrestati sono stati duemila. Le retate hanno fatto esplodere la tensione. L’amministrazione Trump ha promesso che punirà in modo esemplare chiunque ostacoli l’attività degli agenti o li aggredisca. Tom Homan, il cosiddetto zar della frontiera, è arrivato a minacciare di arrestare la sindaca di Los Angeles, la democratica Karen Bass, per il suo rifiuto di partecipare alla caccia ai migranti.
Il 7 giugno forze dell’ordine e manifestanti si sono scontrati nella città di Paramount, a sud di Los Angeles. In seguito le proteste hanno toccato Compton, sempre nell’area metropolitana di Los Angeles, dove sono comparse bandiere messicane e un veicolo è stato dato alle fiamme. Nel centro di Los Angeles le manifestazioni c’erano state anche il giorno prima. Le autorità hanno invitato alla calma e a protestare pacificamente per non dare a Trump il pretesto per peggiorare la situazione. Il responsabile del dipartimento per la difesa ha minacciato di inviare nelle strade di Los Angeles i soldati di stanza a Camp Pendleton, nei pressi di San Diego.
La maggior parte delle manifestazioni, in ogni caso, si è svolta senza incidenti. A pochi metri da dove si sentivano esplosioni e i taxi senza conducente prendevano fuoco, un gruppo di turisti belgi stava visitando la zona del primo insediamento di Los Angeles. Gli europei scattavano fotografie nel pueblito, l’area dove arrivarono le prime famiglie messicane in cui campeggia una statua di Carlos III, re spagnolo che ordinò di creare un centro abitato nel luogo dove oggi sorge una megalopoli. “Eravamo lì in mezzo al trambusto! È stato emozionante!”, ha dichiarato Patrick mentre camminava a passo svelto per raggiungere il resto del gruppo. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati