Da anni la Cina si è affermata come la principale potenza manifatturiera del pianeta, e ora il paese asiatico contende seriamente agli Stati Uniti il primato nel settore tecnologico, obiettivo che, almeno per il momento, la scombinata guerra commerciale di Donald Trump non sembra compromettere. Alla base di questa crescita straordinaria, tuttavia, c’è un modello ancora imperniato, tra l’altro, su ritmi di lavoro durissimi, anche dopo che il presidente Xi Jinping ha deciso di spostare l’asse dell’economia da attività a minore produttività come quella immobiliare a settori avanzati come l’auto elettrica e i semiconduttori.

Lo sviluppo economico cinese non sta premiando i lavoratori come ci si aspetterebbe da un paese ufficialmente legato a un sistema socialista. Il tema è stato risollevato in questi giorni da un caso che coinvolge una delle più importanti aziende tecnologiche cinesi, la Xiaomi, capace di passare dalla produzione di telefonini e tablet a quella di auto elettriche, un’impresa in cui ha fallito – perdendo miliardi di dollari – perfino un colosso come la Apple.

Bloomberg racconta che il 25 agosto 2024 è morto in seguito a un attacco cardiaco Wang Peizhi, un brillante manager dell’azienda fondata dal miliardario Lei Jun. Aveva solo 34 anni. Tre giorni prima si era accasciato improvvisamente al suolo mentre era in negozio in compagnia del figlio. Sua moglie, Luna Liu, è convinta che la morte di Wang sia dovuta ai ritmi impressionanti di lavoro a cui era sottoposto, anche se le autorità e l’azienda si sono affrettati a precisare che non c’è alcun legame con l’attività alla Xiaomi. “Lo hanno trattato come una foglia appena caduta dall’albero, la gente ci passa sopra senza accorgersi della sua esistenza”, ha dichiarato Luna Liu a Bloomberg dopo che ha deciso di rompere il silenzio perché il caso di suo marito “merita più attenzione”. Ha condiviso migliaia di messaggi di lavoro di Wang per dimostrare che “le aziende cinesi spingono oltre ogni limite i dipendenti, senza pensare alla loro salute e al loro benessere”.

Nei mesi precedenti alla sua morte Wang aveva lavorato letteralmente giorno e notte alla transizione della Xiaomi verso l’auto elettrica. Il suo compito era la trasformazione dei negozi di telefoni e tablet in saloni per automobili in tempo per il lancio del primo modello, fissato per il marzo 2024. Solo che in precedenza la Xiaomi aveva licenziato metà del personale dedicato all’allestimento dei punti vendita, lasciando Wang e appena dieci collaboratori alle prese con 267 negozi.

Allo stesso tempo il manager doveva seguire almeno un’altra decina di progetti dell’azienda. Era pagato bene per gli standard cinesi (seicentomila yuan all’anno, pari a 84mila dollari), ma secondo la moglie viveva sotto “un’enorme pressione mentale”, preso a tenaglia tra le richieste dei suoi capi e i problemi che doveva risolvere sul campo. In uno dei messaggi mostrati dalla moglie, un giorno alle due e mezzo della notte gli fu chiesto di installare degli specchi in un negozio e poche ore dopo Wang cominciò a premere sul fornitore perché finisse il lavoro in tempi ridotti di cinque volte rispetto a quelli stabiliti in origine. “A un certo punto”, ha sottolineato la moglie, “mio marito faceva il lavoro che di solito è svolto da sette o otto persone. Mi diceva che girava come una trottola”.

Il 22 agosto 2024 Wang si sentiva molto debole e decise di prendere un giorno di malattia per farsi visitare in ospedale. “Ma anche mentre era lì ricevette messaggi da cinque negozi. Rispose che era in malattia e che avrebbe mandato un uso collega quel giorno. Un dirigente gli scrisse: ‘I dipendenti della Xiaomi sono tutti dei guerrieri’, e gli augurò di rimettersi in salute. Il suo caso e i ritmi di lavoro alla Xiaomi non sono un’eccezione in Cina. La cultura del duro lavoro, sintetizzata dalla sigla 996 (dalle 9 del mattino alle 9 della sera per sei giorni alla settimana, per un totale di 72 ore), è profondamente radicata, soprattutto nel settore dell’alta tecnologia. Nel 2021, dopo che una dipendente dell’azienda di commercio online Pingduoduo era morta mentre tornava a casa dall’ufficio intorno a mezzanotte, il governo dichiarò illegale il 996, ma oggi il sistema è ancora diffuso.

Le ragioni sono molteplici, spiega la Reuters. Ma tra i motivi principali c’è il fatto che lavorando secondo gli standard raccomandati dall’Organizzazione internazionale del lavoro (44 ore alla settimana), a cui Pechino aderisce formalmente, molti cinesi non arriverebbero alla fine del mese. Per questo spesso sono i dipendenti a chiedere alle aziende di lavorare di più per guadagnare denaro sufficiente. Secondo gli osservatori, bisogna tener presente che i lavoratori cinesi non hanno sindacati indipendenti in grado di difenderli e allo stesso tempo soffrono della bassa produttività: dal momento che in Cina la quantità di prodotto per lavoratore è “significativamente più bassa di quella registrata nelle economie avanzate”, molte aziende che vogliono battere la concorrenza locale e soprattutto quella globale puntano sugli alti ritmi di lavoro.

Il crescente dominio cinese nell’economia globale stride con la quota relativamente bassa di ricchezza che arriva ai milioni di lavoratori impiegati dal sistema. L’economia si basa prevalentemente sulle esportazioni nel resto del mondo e in misura molto limitata sui consumi interni. Xi Jinping continua a perseguire il suo obiettivo – conquistare la supremazia economica e tecnologica rispetto a un occidente che considera in declino – con il modello di sempre: un eccesso di produzione destinato ai mercati globali. Di fronte alla prospettiva che un giorno le esportazioni possano non essere più assorbite all’estero come oggi, molti economisti consigliano a Pechino di aumentare la quota di pil alimentata dai consumi interni, come negli altri paesi avanzati. Questa scelta vorrebbe dire, tra l’altro, un sistema di welfare di tipo occidentale che permetta ai cinesi di avere più soldi da destinare ai consumi.

Un progetto enorme in un paese dalle dimensioni enormi. Ma non è certo questo a scoraggiare i vertici di Pechino, quanto piuttosto la paura di vedere indebolita la loro presa sul potere. Come scrive Lingling Wei, corrispondente dalla Cina per il Wall Street Journal, “il socialismo del Partito comunista cinese non riguarda una rete di sicurezza sociale, ma significa che il partito ha l’autorità assoluta su tutto, dall’economia, ai mezzi di comunicazione fino alla vita privata dei cittadini. Pechino usa l’economia come uno strumento per consolidare il suo potere e accrescere la potenza della Cina”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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