Il 16 novembre in Cile si vota per eleggere il presidente, dopo cinque anni di governo del progressista Gabriel Boric, e rinnovare parte del senato e della camera dei deputati. Se nessuno dei candidati avrà la maggioranza assoluta dei voti, come sembrano indicare tutti i sondaggi, ci sarà il ballottaggio il prossimo 14 dicembre. Il vincitore, o la vincitrice, assumerà l’incarico presidenziale a marzo dell’anno prossimo.
Per la prima volta tutte le persone maggiorenni saranno obbligate ad andare alle urne – rischiano una multa se non lo fanno – e quasi sedici milioni di cilene e cileni si sono registrati per esprimere il loro voto domenica. Se nelle ultime elezioni a votare sono andate circa sette milioni di persone questa volta saranno quasi il doppio, di cui quasi novecentomila sono stranieri che risiedono in Cile almeno da cinque anni. I nuovi elettori sono in maggioranza giovani e appartenenti ai settori più popolari. La costituzione cilena vieta a un presidente di candidarsi per un secondo mandato consecutivo, per questo Boric non si è potuto presentare.
A rappresentare la continuità con l’attuale governo c’è Jeannette Jara, 51 anni anni, avvocata, ex ministra del lavoro e vincitrice a sorpresa delle primarie del centrosinistra dello scorso giugno. Dall’età di 14 anni fa parte del Partito comunista, in cui ha sempre militato, è stata a lungo sindacalista e ha ricoperto l’incarico di sottosegretaria alla sicurezza sociale nel secondo governo dell’ex presidente socialista Michelle Bachelet. È apprezzata dai cileni sia per le sue origini umili, che la rendono più vicina alle persone, sia per i risultati ottenuti come ministra nel governo Boric: portano la sua firma la riduzione della settimana lavorativa da 45 a 40 ore e la riforma previdenziale.
Da quando è stata scelta come candidata unica del centrosinistra alla presidenza, Jara ha dovuto attenuare alcune sue posizioni, in particolare ha fatto marcia indietro sulla proposta di nazionalizzare il rame e ha cambiato atteggiamento verso il Venezuela e Cuba. Riguardo al governo dell’Avana, ha sottolineato l’impatto dell’embargo statunitense nella crisi umanitaria ed economica che il paese attraversa ormai da vari anni, ma ha dichiarato che “l’isola chiaramente non è una democrazia”, discostandosi dalla linea storica del suo partito con l’obiettivo di prendere i voti della sinistra più moderata e del centro.
Tutta la campagna elettorale si è giocata su temi cari alla destra, l’immigrazione e l’aumento dell’insicurezza, le questioni principali che oggi preoccupano i cittadini cileni. Oltre a insistere sulla necessità di politiche per la casa più incisive, proponendo la costruzione di 260mila nuovi alloggi e lo stanziamento di più fondi per gestire l’emergenza abitativa, Jara ha fatto spesso riferimento all’immigrazione, sottolineando che quella irregolare danneggia il paese e dev’essere controllata alle frontiere da unità speciali istituite appositamente. Tra il 2018 e il 2024 in Cile il numero di persone immigrate è cresciuto di quasi il 50 per cento, in maggioranza sono venezuelani che hanno lasciato il loro paese colpito dalla crisi economica, sociale e politica.
Le proposte dei tre principali candidati di destra e di estrema destra, che si presentano divisi al primo turno, sono molto più drastiche: chiedono un cambiamento netto e promettono una politica ferma e dura contro i migranti. José Antonio Kast, 59 anni, ex deputato e leader del Partito repubblicano (estrema destra), è al suo terzo tentativo di essere eletto presidente. Propone di espellere tutte le persone immigrate in una situazione irregolare e una politica di tagli simile a quella dell’ultraliberista Javier Milei in Argentina, per riportare in ordine i conti dello stato. Ha in parte ammorbidito le sue proposte più estremiste, che lo avevano danneggiato nel 2019 nella campagna contro Boric, dichiarando che non è più necessario scavare una trincea al confine settentrionale per fermare i migranti e che non taglierà gli aiuti sociali.
Questo riposizionamento ha lasciato spazio vuoto ancora più a destra: la vera sorpresa di questa campagna elettorale è sicuramente Johannes Kaiser, 49 anni, deputato del Partito nazionale libertario da lui fondato l’anno scorso. Le sue proposte sono radicali: ha promesso di chiudere le frontiere con la Bolivia, di espellere tutti gli stranieri con precedenti penali e di costruire dei campi per i migranti che attraversano illegalmente il confine. Ha detto anche che vuole riformare il sistema giudiziario e quello penale, con la possibilità di concedere l’indulto ai detenuti condannati per violazione dei diritti umani durante la dittatura militare di Augusto Pinochet. “Voglio chiudere definitamente il capitolo 1973-1990. Non è possibile avere gente di 80 e 90 anni che marcisce in prigione solo per motivi politici”.
Tra questi due estremi Evelyn Matthei, ex ministra del lavoro del primo governo di Sebastián Piñera (2010-2014), rappresenta la destra più tradizionale. Ha associato l’immigrazione irregolare all’aumento della delinquenza e ha insistito durante tutta la campagna elettorale sul tema “prima i cileni”. Nelle ultime settimane ha cercato di convincere gli elettori di centro e di centrosinistra che non sono disposti a votare per una candidata comunista, promettendo accordi con tutti i settori politici e una squadra di governo pensata negli interessi del paese.
Anche se i sondaggi indicano che Jara quasi certamente andrà al ballottaggio, è probabile che la destra arrivi al secondo turno più forte grazie all’appoggio degli altri candidati.
Questo testo è tratto dalla newsletter Sudamericana.
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