Gli esportatori cinesi stanno moltiplicando gli sforzi per evitare i dazi del 145 per cento imposti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Una delle soluzioni, scrive il Financial Times, è etichettare le loro merci in modo da nasconderne la vera origine e farle circolare come se provenissero da altri paesi. “I social media cinesi sono pieni di offerte per il ‘lavaggio’ del luogo d’origine”. Le mete preferite sono i paesi del sudest asiatico, in particolare la Malaysia. Su Xiaohongshu, per esempio, una persona che si fa chiamare “Ruby — Third country transshipment” scrive: “Gli Stati Uniti hanno imposto dazi sui prodotti cinesi? Passa attraverso la Malaysia e falli diventare merci del sudest asiatico”. Su un altro post si legge: “Gli Stati Uniti hanno messo barriere sul parquet e le stoviglie cinesi? ‘Lava via l’origine’ in Malaysia per passare alla dogana senza problemi!”.

Intanto in molti paesi che, loro malgrado, fungono da tramite verso gli Stati Uniti è scattato l’allarme. Ad aprile, per esempio, la Corea del Sud ha trovato merci per ventuno milioni di dollari con certificati d’origine falsificati. Si trattava in gran parte di prodotti cinesi destinati agli Stati Uniti. Il ministero dell’industria e del commercio del Vietnam ha lanciato un appello alle organizzazioni degli esportatori e delle aziende manifatturiere perché rafforzino i controlli sull’origine delle materie prime e dei componenti e perché impediscano il rilascio di certificati falsi. Il ministero del commercio della Thailandia ha adottato nuove misure per irrigidire i controlli sui prodotti in partenza per gli Stati Uniti.

La guerra commerciale scatenata da Trump è un clamoroso atto di autosabotaggio da parte della prima potenza economica mondiale. Ne avevo scritto qui. Per di più, come spiega molto bene l’economista Adam Posen in un articolo uscito su Internazionale oggi, nel confronto con la Cina gli Stati Uniti hanno molte meno armi a disposizione: comprano meno merci dei cinesi, ma si tratta spesso di prodotti, come le terre rare o i componenti base dei farmaci, che non è facile sostituire o addirittura è impossibile; per i cinesi, invece, si tratta di rinunciare a entrate finanziarie e di trovare clienti alternativi o, come abbiamo visto, modi fantasiosi per raggiungere comunque il mercato statunitense.

In ogni caso questo non vuol dire che la Cina non stia soffrendo. Ad aprile le esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono diminuite del 21 per cento rispetto allo stesso mese del 2024. Questo calo è stato compensato dalle vendite nei paesi del sudest asiatico, dell’America Latina, dell’Africa e dell’Unione europea, ma molto probabilmente tutto questo spingerà altri governi a imporre misure per frenare l’ondata di prodotti cinesi nel mondo. Più che altro, come scrive il Wall Street Journal, Pechino non vuol far vedere i segni della sua sofferenza e ci tiene a passare come un paese in grado di “tollerare meglio degli Stati Uniti una guerra commerciale prolungata”.

Tuttavia qualcosa comincia a venire fuori, continua il quotidiano finanziario: “Il rallentamento del commercio attraverso il Pacifico sta provocando il blocco di alcune produzioni, minacciando il posto di lavoro di milioni di cinesi. Il 30 aprile sono arrivati i primi segnali di difficoltà dell’economia, con il calo degli ordini dall’estero e il dato della produzione manifatturiera più basso da più di un anno”. Aziende che dipendono dal mercato statunitense, come i produttori di giocattoli, di abbigliamento o di dispositivi elettronici, “hanno sospeso l’attività e mandato a casa i dipendenti. Sono in difficoltà anche le aziende che hanno bisogno di componenti fabbricati negli Stati Uniti”.

La guerra commerciale è già persa
Gli Stati Uniti sono la parte più debole nello scontro con la Cina. Perché molte delle cose che comprano da Pechino sono difficilmente sostituibili

La DeHong Electrical Products di Dongguan, nella provincia del Guangdong, ha dato ai dipendenti un mese di congedo al minimo salariale, spiegando che la fabbrica è sotto pressione a causa della sospensione di molti ordini. I dirigenti dell’azienda stanno cercando di espandersi in nuovi mercati e di ottimizzare i costi prima di ripartire con l’attività. I colossi tecnologici e le città dove si concentrano gli esportatori, come Shenzhen e Dongguan, stanno preparando dei programmi di sostegno per “stabilizzare il commercio estero”. Tra le misure di Shenzhen, per esempio, il rafforzamento delle assicurazioni sulle esportazioni per aiutare le aziende a compensare gli ordini statunitensi cancellati.

Ma lo scontro commerciale è solo uno dei problemi che affliggono i lavoratori cinesi, sottolinea il New York Times. Pechino è ancora alle prese con gli effetti dell’enorme bolla immobiliare e soprattutto con la deflazione causata dal fatto che i cinesi hanno pochi soldi per i propri consumi: “I prezzi persistentemente bassi di qualunque prodotto, dalle uova ai pasti caldi consegnati a domicilio, riducono i profitti delle aziende ed erodono le paghe dei lavoratori. La conseguenza è che tutti i cinesi hanno ancora meno soldi da spendere, fanno meno acquisti e mandano i prezzi ancora più giù”.

Negli ultimi anni è cresciuto rapidamente il numero di cinesi che trovano lavoro nel settore delle consegne a domicilio dopo essere stati licenziati da piccole aziende finite sul lastrico. Nel 2020 la cosiddetta gig economy dava già lavoro a duecento milioni di cinesi. La guerra commerciale potrebbe accelerare la tendenza, visto che secondo la Goldman Sachs l’improvviso calo delle esportazioni delle ultime settimane costerà il posto a venti milioni di lavoratori.

Il presidente Xi Jinping intanto si prepara all’inizio dei colloqui con gli Stati Uniti, previsto in Svizzera questo fine settimana, ma ci tiene a ribadire che il paese è pronto a lottare fino alla fine. Il governo sta “preparando i cinesi a una lunga battaglia come quella condotta da Mao contro gli Stati Uniti nella guerra di Corea degli anni cinquanta”.

Secondo il Wall Street Journal, la battaglia non sarà condotta solo sul piano economico. È previsto, infatti, anche il rafforzamento del controllo autoritario del Partito comunista sulla società, perché il governo teme che il malcontento dei lavoratori possa minare la stabilità interna. Secondo China dissent monitor, un progetto dell’ong statunitense Freedom house, nei primi nove mesi del 2024 i lavoratori sono stati i protagonisti del dissenso in Cina, contribuendo a più del 40 per cento delle proteste organizzate nelle piazze e online. Xi, tra l’altro, “è preoccupato che i giovani cinesi non siano disposti a soffrire per il bene del paese come hanno fatto le generazioni precedenti”.

Per questo Pechino aumenterà gli strumenti di controllo e repressione, già molto potenti e invasivi. Sta incoraggiando l’espansione delle tecnologie di sorveglianza basate sul cosiddetto “modello Fengqiao”, dal nome della cittadina diventata famosa all’epoca di Mao perché i suoi abitanti denunciavano scrupolosamente i comportamenti ‘devianti’ dei concittadini”. Ovviamente, conclude il Wall Street Journal, le forze di sicurezza stanno studiando il modo di impiegare al meglio i software d’intelligenza artificiale più avanzati, tra cui alcuni modelli in grado di prevedere le esplosioni del malcontento.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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