“Se un paese perde miliardi di dollari negli scambi commerciali praticamente con qualsiasi paese con cui fa affari”, ha scritto una volta il presidente degli Stati Uniti Donald Trump in un tweet del 2018, “le guerre commerciali sono una buona cosa, e si vincono facilmente”. Ad aprile, quando l’amministrazione Trump ha imposto dazi superiori al 100 per cento sulle importazioni degli Stati Uniti dalla Cina, scatenando una pericolosa guerra commerciale, il segretario del tesoro statunitense Scott Bessent ha dichiarato: “Penso che questa escalation della Cina sia stato un grave errore, perché hanno in mano delle carte ridicole. Cosa ci perdiamo noi se i cinesi alzano i dazi contro di noi? Noi esportiamo in Cina un quinto di quello che loro esportano da noi, ecco perché questa per loro è una mano perdente”.

L’amministrazione Trump è convinta di avere quella che la teoria dei giochi definisce una dominanza dell’escalation con la Cina e con qualsiasi altro paese con cui hanno un disavanzo commerciale. La dominanza dell’escalation, come si legge in un rapporto della Rand corporation, significa “avere la capacità di intensificare un conflitto in modi che risulteranno svantaggiosi o costosi per l’avversario, mentre l’avversario non può rispondere con lo stesso comportamento”. Se la logica dell’amministrazione Trump è corretta, allora la Cina, il Canada e qualsiasi altro paese dovesse rispondere ai dazi statunitensi starebbe effettivamente giocando una mano perdente.

Questa logica però è sbagliata: nella guerra commerciale è la Cina ad avere la dominanza. Gli Stati Uniti ricevono merci vitali da Pechino, che non si possono sostituire nel giro di poco tempo né si possono produrre internamente a costi accessibili. Ridurre questa dipendenza potrebbe essere un buon motivo per prendere dei provvedimenti, ma combattere la guerra in corso prima di averlo fatto è la ricetta per una sconfitta quasi certa, a un prezzo altissimo.

Le affermazioni dell’amministrazione statunitense sono fuori strada per due ragioni. Innanzitutto, entrambi i paesi ne escono danneggiati, perché tutti e due perdono accesso ai prodotti di cui hanno bisogno. Una guerra commerciale è un atto distruttivo che mette a rischio anche le forze e il fronte interno di chi attacca: se chi si difende non ritenesse di poter danneggiare l’aggressore, si arrenderebbe.

Il paragone con il poker fatto da Bessent è fuorviante perché il poker è un gioco a somma zero: io vinco solo se tu perdi. Il commercio, invece, è un gioco a somma positiva: nella maggior parte delle situazioni ci guadagnano tutti. Nel poker l’unico modo per recuperare una puntata è vincere. Nel commercio si ottiene sempre qualcosa, nella forma dei prodotti e dei servizi comprati.

L’amministrazione Trump pensa che più cose si importano meno si ha da perdere: dato che gli Stati Uniti hanno un disavanzo commerciale con la Cina, allora i cinesi sono più vulnerabili. È un errore fattuale, non un’opinione discutibile. Bloccare gli scambi commerciali riduce le entrate reali e il potere d’acquisto di un paese. I paesi esportano per guadagnare i soldi con cui comprare cose che non hanno o cose troppo costose da produrre internamente.

È sconsiderato non assicurarsi forniture alternative prima di troncare i rapporti

Per di più, anche se ci si concentra solo sul saldo commerciale bilaterale, per gli Stati Uniti ci sono scarse prospettive di vittoria. Nel 2024 le esportazioni statunitensi di beni e servizi in Cina sono state di 199,2 miliardi di dollari e le importazioni dalla Cina di 462,5 miliardi, con un disavanzo di 263,3 miliardi. Il vantaggio spetta all’economia in surplus. La Cina, il paese in surplus, rinuncerà alle vendite, la sua unica moneta; gli Stati Uniti, il paese in disavanzo, rinunceranno a beni e servizi che non producono in modo competitivo o non producono affatto. Ma il denaro è sostituibile: se perdi entrate, puoi tagliare le spese, trovare altri mercati, distribuire il peso dei mancati guadagni in tutto il paese o attingere ai risparmi (per esempio con stimoli fiscali). La Cina, come la maggior parte dei paesi in surplus, mette i soldi da parte invece di investirli. Questo significa che, in un certo senso, ha troppi risparmi. Gli aggiustamenti sarebbero relativamente facili. Non ci sarebbero grandi carenze e si potrebbe sostituire gran parte delle vendite agli Stati Uniti con vendite interne o verso altri paesi.

I paesi in disavanzo spendono più di quanto risparmiano. Nelle guerre commerciali rinunciano o riducono le forniture di prodotti di cui hanno bisogno (perché a causa dei dazi costano di più) e che non sono neanche lontanamente intercambiabili o sostituibili come il denaro. Di conseguenza, l’impatto si fa sentire su determinati settori, luoghi o famiglie che devono affrontare la mancanza di prodotti a volte necessari, alcuni dei quali non sostituibili a breve termine. I paesi in disavanzo, inoltre, importano capitali, e questo rende gli Stati Uniti più vulnerabili ai cambiamenti di percezione sull’affidabilità del loro governo e sull’attrattiva del paese come posto in cui fare affari. Quando l’amministrazione Trump prende decisioni capricciose per imporre un enorme aumento delle tasse e provoca una grande incertezza sulle filiere del settore manifatturiero, il risultato sarà una riduzione degli investimenti negli Stati Uniti e, di conseguenza, un aumento dei tassi d’interesse sul debito.

In sintesi, l’economia statunitense subirà danni enormi in caso di un’ampia guerra commerciale con la Cina. Di fatto soffrirà di più, e le sofferenze non faranno che aumentare se gli Stati Uniti intensificheranno il livello del conflitto. Trump sarà anche convinto di mostrare i muscoli, ma di fatto sta mettendo l’economia statunitense alla mercé di un inasprimento del conflitto da parte cinese.

Gli Stati Uniti soffriranno la mancanza di importazioni critiche, dagli ingredienti di base di gran parte dei prodotti farmaceutici ai semiconduttori a basso costo usati nelle automobili e negli elettrodomestici fino ai minerali indispensabili ai processi industriali, compresa la produzione di armi. Lo shock nelle forniture provocato dalla drastica riduzione o dall’azzeramento delle importazioni dalla Cina, l’obiettivo delle affermazioni di Trump, si tradurrà nella stagflazione (contrazione del pil insieme all’aumento dell’inflazione), l’incubo macroeconomico che si realizzò negli anni settanta e nel periodo della pandemia di covid-19. In una situazione simile le autorità hanno a disposizione solo scelte terribili e poche possibilità di prevenire la disoccupazione, a meno di non far aumentare ulteriormente l’inflazione.

L’aggressione economica

Nel caso di una guerra vera e propria, se si ha il timore di essere invasi sarebbe un suicidio provocare l’avversario prima di essersi armati. Questo è sostanzialmente il rischio che si corre con l’aggressione economica di Trump: tenuto conto che l’economia statunitense dipende interamente da fonti cinesi per prodotti essenziali è sconsiderato non assicurarsi forniture alternative o una produzione interna adeguata prima di troncare i rapporti commerciali.

Si potrebbe considerare tutto questo una mera tattica negoziale, a prescindere dalle affermazioni e dalle azioni di Trump e Bessent. Anche da questa prospettiva, però, la strategia farà più danni che altro. Il problema dell’approccio economico di Trump è che per essere credibile ha bisogno di una quantità enorme di minacce autolesioniste, e questo significa che i mercati e le famiglie si aspetteranno un lungo periodo di incertezza. Statunitensi e stranieri investiranno di meno nell’economia degli Stati Uniti e non avranno più fiducia nel fatto che la Casa Bianca possa rispettare un accordo. Sarebbe perciò difficile raggiungere una soluzione negoziata o un accordo per attenuare le tensioni. La capacità produttiva degli Stati Uniti di conseguenza subirà un declino e questo non farà che rafforzare l’influenza della Cina e di altri paesi sugli Stati Uniti.

L’amministrazione Trump si sta imbarcando nell’equivalente economico della guerra del Vietnam, una guerra voluta che presto si trasformerà in un pantano, indebolendo la fiducia, sia interna sia internazionale, nell’affidabilità e nella competenza degli Stati Uniti. E si sa com’è andata a finire. ◆ gim

Adam Posen è un economista statunitense. È presidente del Peterson institute for international economics.

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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati