Il nome del ristorante Sulnoon significa “neve di capodanno”: in Corea del Nord si dice che la neve che cade il primo giorno dell’anno porti fortuna. Il ristorante ha aperto a marzo del 2024 per volontà di Moon Yeon-hi, detta Renhime, e di suo marito Katsumata, con l’idea di far conoscere il sapore dei naengmyeon, i tradizionali spaghettini freddi nordcoreani. Il locale si trova al primo piano di un edificio affacciato su una strada trafficata nella città di Chiba. Nonostante la posizione un po’ decentrata, attira molti clienti.
Renhime proviene da una famiglia di cuochi. La nonna gestiva una tavola calda nella provincia dello Hwanghae Meridionale, nel sudovest della Corea del Nord, mentre la madre lavorava al Koryo hotel, uno degli alberghi più rinomati di Pyongyang, e aveva esperienza nella preparazione dei naengmyeon. È stata proprio lei a insegnare a Renhime la ricetta.
I naengmyeon sono spaghetti lisci e scivolosi. La loro particolarità è nell’uso della farina di grano saraceno dal profumo intenso. Diffusi a Pyongyang fin da prima della fondazione della Corea del Nord nel 1948, sono noti per il loro gusto persistente. Nel settembre 2018, in occasione del vertice intercoreano che si è tenuto nella capitale, il leader nordcoreano Kim Jong-un e l’allora presidente sudcoreano Moon Jae-in hanno mangiato i naengmyeon del ristorante Okryu-gwan. Da quel giorno il piatto è diventato popolare anche oltreconfine.
In Corea del Sud li servono in molti ristoranti. Alcuni sono stati aperti da esponenti dell’élite nordcoreana che si sono rifugiati al sud durante la guerra di Corea. Come spiega Renhime, “anche se si chiamano allo stesso modo, i naengmyeon fatti in Corea del Sud hanno un gusto diverso da quelli nordcoreani”.
Renhime è nata nel 1991 nella città di Wŏnsan, nel nordest della penisola coreana. I suoi nonni emigrarono in Giappone negli anni trenta. Negli anni cinquanta sia loro sia i genitori di Renhime rientrarono in Corea del Nord dopo aver aderito a un programma di rimpatrio all’epoca promosso come un ritorno in un “paradiso in terra” che coinvolse circa 93mila persone.
Renhime si trasferì da Wŏnsan a Pyongyang durante le scuole medie. A metà degli anni novanta la Corea del Nord fu colpita da una grave carestia, nel contesto della crisi economica nota come marcia della sofferenza, che provocò molte vittime e le cui conseguenze si fanno ancora sentire. La sua famiglia, grazie alle rimesse ricevute dal Giappone, riuscì a evitare il peggio. Ma per le strade della capitale si vedevano ovunque bambini senza tetto: una volta le strapparono il cibo di mano e, un’altra, le rubarono una forcina per capelli.
Alle superiori ha cominciato a nutrire seri dubbi sul regime, soprattutto quando lei e i suoi compagni sono stati costretti ad assistere all’esecuzione pubblica di una donna accusata di aver venduto dei dvd di serie tv sudcoreane. Negli anni duemila nel paese avevano cominciato a circolare dvd e video introdotti clandestinamente dalla Cina, in particolare serie televisive sudcoreane, ma anche produzioni di altri paesi. Renhime, come tanti altri ragazzi, le guardava di nascosto. In quel periodo ha potuto vedere Titanic, un film di successo in tutto il mondo: “Non riuscivo proprio a capire quali contenuti di quel film potessero essere considerati problematici”, ricorda.
Un fiume in piena
I rimpatriati dal Giappone e le loro famiglie erano inoltre discriminati dalla popolazione, che li accusava di essere stati “corrotti dal capitalismo”. Fu quel risentimento a spingerla a scappare dalla Corea del Nord a 25 anni.
◆ 1991 Nasce a Wonsan, in Corea del Nord.
◆ 2016 Per evitare la repressione del regime, scappa in Corea del Sud, passando per Cina e Laos.
◆ 2019 Apre a Seoul un ristorante specializzato in spaghettini nordcoreani.
◆ 2020 Si trasferisce in Giappone insieme al marito e apre un nuovo locale, il Sulnoon.
La fuga è stata più difficile di quanto Renhime potesse immaginare. Tutto è cominciato con un viaggio in auto di dodici ore da Pyongyang a Hyesan, città al confine settentrionale del paese. Ha pagato tremila dollari a un intermediario cinese e, una notte di maggio, ha attraversato da sola un fiume in piena, al buio. Per evitare i posti di blocco in territorio cinese è stata costretta a camminare per quarantott’ore lungo sentieri di montagna, senza bere né mangiare. Infine, spostandosi con automobili e treni, è riuscita a entrare in Laos, dove ha trovato rifugio nell’ambasciata sudcoreana. Il viaggio è durato circa tre settimane.
Dopo circa un anno ha ottenuto la cittadinanza sudcoreana e ha cominciato una nuova vita a Seoul. In quanto rifugiata nordcoreana lo stato le garantiva un sussidio per l’integrazione e le forniva gli elettrodomestici essenziali per la vita quotidiana. Quando ha letto il suo nome sul passaporto sudcoreano ha pianto di gioia. Renhime ha ottenuto una certificazione in contabilità che le ha permesso di lavorare in un’azienda. Nel 2019 ha aperto insieme alla madre e al fratello, anche loro fuggiti dalla Corea del Nord, un ristorante di naengmyeon tipici di Pyongyang. Proprio a Seoul ha conosciuto anche il suo futuro marito, Katsumata, un giapponese che lavorava in un ristorante dove lei andava a mangiare. Renhime aveva 29 anni. In poco più di tre mesi si sono sposati. Dopo il matrimonio si sono trasferiti in Giappone. Hanno deciso di tentare la fortuna puntando sulla ricetta dei naengmyeon ereditata dalla nonna di Renhime, e hanno chiesto un prestito per finanziare l’apertura del ristorante.
Di solito per gustare i naengmyeon originali di Pyongyang uno straniero deve andare nella capitale nordcoreana, oppure trovare un ristorante nordcoreano all’estero. Tuttavia, dopo la pandemia di covid-19, la Corea del Nord non ha riaperto completamente i confini ai visitatori stranieri, e la maggior parte dei ristoranti statali nordcoreani in Cina e nel sudest asiatico ha chiuso a causa delle sanzioni imposte dall’Onu. In Giappone quelli che servono i naengmyeon di Pyongyang ne hanno spesso adattato il gusto al palato locale. Per i giapponesi, quindi, è diventato quasi impossibile assaggiare la versione autentica del piatto.
Già prima dell’inaugurazione del Sulnoon a Chiba la notizia aveva fatto il giro dei giornali locali, fino a raggiungere la televisione e i principali quotidiani giapponesi. Il giorno dell’apertura si sono presentati circa settanta clienti; oggi nel fine settimana ne arriva anche un centinaio al giorno. L’attesa per essere serviti può durare anche un’ora e mezza.
In Giappone vivono circa duecento dissidenti nordcoreani. La maggior parte di loro, come Renhime, viene da famiglie di coreani originariamente residenti in Giappone, poi andate in Corea del Nord attraverso il progetto di rimpatrio. Diversamente dalla Corea del Sud, dove sono circa 33mila, in Giappone manca una struttura dedicata al loro inserimento nel tessuto sociale e lavorativo.
Anche Renhime, quando viveva in Corea del Sud, ha affrontato momenti d’incertezza. In Corea del Nord, a causa dei suoi legami con un paese capitalista come il Giappone, era spesso guardata con sospetto; in Corea del Sud, invece, era trattata come un’estranea per via del suo accento: “Mi è capitato di chiedermi a quale
paese appartengo davvero”.
In Giappone il termine dappokusha (profugo nordcoreano) può evocare un’immagine negativa, ma Renhime non ha mai nascosto le proprie origini, anzi. Per lei il sostegno più grande viene dalle parole dei clienti. “In Corea del Sud sentivo dire che i giapponesi sono un popolo senza emozioni, ma qui ho scoperto che è il contrario, sono molto gentili”.
Il successo di Sulnoon potrebbe diventare un modello di riferimento per i disertori nordcoreani in Giappone. Ci sono clienti che arrivano da luoghi lontani, come Hokkaido e Okinawa. Il locale ha solo quattro tavoli per quattro persone e un bancone con otto posti. In futuro Renhime spera di aprire delle filiali in altre zone del Giappone.
A volte ripensa a quando ha attraversato da sola il fiume in piena. Ma sorride: “Dopo quell’esperienza niente può farmi paura”. L’energia che la aiuta ad affrontare la vita quotidiana in Giappone, un paese che offre poco supporto ai profughi nordcoreani, forse nasce proprio dall’aver scalato la montagna più alta della sua vita: la fuga dalla Corea del Nord. ◆ jb
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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati