La vanità non gli appartiene. Non sembra particolarmente lusingato dai complimenti per il suo lavoro. Quando la scorsa primavera siamo andati a trovarlo nella sua fattoria nel Burgenland meridionale, in Austria, ci è sembrato un uomo pacato, quasi distaccato. Il suo indirizzo è difficile da trovare. Martin Pollack ha bisogno di stare da solo. Ama la pace, ma anche il silenzio, senza non potrebbe lavorare. Nel cortile ha fatto costruire da un architetto un cubo di legno, una biblioteca. È l’unica aggiunta all’edificio. Siamo seduti uno di fronte all’altro, in calzini. Dalla sua postazione di lavoro si gode la vista del paesaggio circostante, sul davanzale della finestra c’è un binocolo. “Mi piace osservare”, dice con un sorriso malizioso.

Raramente Pollack è citato tra gli storici di fama che, nei documentari e negli speciali televisivi, fanno appassionare gli austriaci alla storia contemporanea e a quella del nazismo. Lui chiama i suoi libri – in particolare Il morto nel bunker, scritto nel 2004 (e pubblicato in Italia nel 2008), in cui racconta la storia di suo padre – “racconti”. È un nome tanto appropriato quanto riduttivo. Non sono saggi né inchieste, non rientrano nel genere dell’autobiografia né in quello delle pubblicazioni accademiche. In realtà non rientrano in nessuna categoria. Nei suoi libri Pollack mostra le ferite, alcune appena rimarginate, che gli ultimi due secoli hanno lasciato nei paesaggi dell’ex “monarchia danubiana” e nell’Europa centrale e orientale. Cerca le tracce del terrore e delle persecuzioni dove gli altri non riescono più a vedere nulla.

Con il suo lavoro, Pollack propone un modo di guardare alla storia austriaca contemporanea diverso da quello di qualsiasi altro storico, giornalista o testimone. Scavando nelle vicende della sua famiglia, alla quale è ancora oggi dolorosamente legato, vuole soprattutto scoprire le radici del nazismo austriaco. Mentre altri si concentrano sulla Vienna di Hitler o sulla giovinezza del Führer, Pollack mostra che a Vienna per la genesi del partito l’antislavismo fu importante quanto l’antisemitismo. I suoi “racconti” provano che in Austria i nazisti c’erano già molto prima della nascita del partito.

Martin Pollack aveva quattordici anni quando, alla fine degli anni cinquanta, la madre gli rivelò per la prima volta chi era suo padre. Gli disse che era stato nelle Ss e nella Gestapo. Non aggiunse molto altro all’epoca, ma Pollack era abbastanza grande per avere almeno una vaga idea di cosa significasse. Chi era veramente suo padre lo avrebbe scoperto solo in seguito. Per quell’uomo gli amati nonni di Amstetten, nella Bassa Austria, i parenti e gli amici avevano solo belle parole. Era “energico”, “sempre onorevole e rispettabile”, ricordava la nonna. Era uno che aveva fatto strada, diceva. Era il dottor Gerhard Bast, Sturmbannführer delle Ss e capo della Gestapo di Linz: un assassino, un criminale di guerra di cui Pollack avrebbe rifiutato il cognome. Il corpo di suo padre fu trovato in un bunker sul Brennero nell’aprile del 1947. Fu ucciso dall’uomo che lo stava aiutando a fuggire mentre tentava di attraversare il confine dall’Italia verso Innsbruck.

Il punto di partenza

Laško, in tedesco Tüffer, dodici chilometri a sud della città di Celje, Cilli in tedesco, è un tranquillo borgo sloveno oggi noto soprattutto per l’omonimo birrificio. È qui che alla fine dell’ottocento si sistemò il renano Paul Bast. Bast sposò la figlia di un notabile del paese, aprì una conceria e comprò una grande casa sulla piazza del mercato; alcuni anziani del villaggio ancora la chiamano Bastova hiša, casa Bast. È questo il punto di partenza della storia.

Nella Bassa Stiria dell’epoca c’erano principalmente sloveni, ma i tedeschi erano la maggioranza in molte comunità, come a Laško. La vita sociale seguiva il principio della separazione: c’erano locande tedesche e locande slovene, e lo stesso valeva per le banche e le chiese. Le associazioni – di ciclisti, di gruppi di canto – giocavano un ruolo importante da entrambe le parti. Con la fine del secolo, e l’ascesa del nazionalismo, il clima cominciò a surriscaldarsi. All’inizio tra tedeschi e sloveni ci furono solo piccole scaramucce, ma erano i primi passi verso una spirale di odio. A una corsa alcuni ciclisti tedeschi che avevano fondato un’associazione nella vicina Celje furono accolti da un lancio di sassi dalla parte slovena; un allegro “Alla salute!” pronunciato da un giovane ubriaco a una festa parrocchiale fu considerato dai tedeschi una provocazione, e subito volarono pugni e boccali di birra. La rivista in lingua tedesca Deutsche Wacht, fedele al suo nome (Wacht significa “guardia”), riportava questi scontri con grande scrupolo: i responsabili ovviamente erano sempre gli sloveni.

C’è una domanda alla quale, nonostante le ricerche, Pollack ancora oggi non sa rispondere: perché suo padre scelse proprio la Gestapo?

Furono coinvolti nelle risse anche cittadini distinti, i cui figli frequentavano il liceo tedesco a Celje. Tra questi c’erano anche quattro degli otto figli dei Bast, soprattutto i fratelli Rudolf ed Ernst. Sono citati in un articolo di giornale per aver cercato uno scontro alla stazione di Laško gridando: “Qui parliamo tedesco!”.

Il liceo di Celje ebbe un ruolo decisivo nel percorso dei fratelli Bast. Lì s’impregnarono d’idee nazionaliste. Si definivano Grenzlanddeutsche, tedeschi delle terre di confine, e si vedevano come un “baluardo contro la rovina slava”. Quando il nonno di Pollack, Rudolf Bast, frequentava il liceo scoppiò una polemica che descrive meglio di qualsiasi evento il nazionalismo dell’epoca. Gli studenti austriaci di lingua tedesca nelle assemblee rendevano omaggio all’imperatore Guglielmo e a Otto von Bismarck e cantavano cori ostili agli Asburgo. Gli sloveni che avevano iscritto i figli lì chiesero e ottennero la creazione di classi separate. Nel 1885 in quel liceo fu fondata la confraternita degli studenti tedeschi della Bassa Stiria, chiamata “Germania”, anticipando l’omonima associazione nazionale degli studenti tedeschi con sede a Graz. Quando Rudolf ed Ernst Bast andarono là a studiare legge entrarono nell’associazione così come avrebbe fatto in seguito Gerhard, figlio di Rudolf e padre di Martin Pollack.

Quando Pollack ha cominciato a fare ricerche sul padre, ha chiesto alla moglie di chiamare l’associazione a Graz, usando il proprio cognome. C’era forse stato un alunno chiamato Bast? “Uno? Quattro!”. Hanno inviato alla moglie di Pollack la fotocopia di una foto incorniciata in cui si vedeva anche il padre di Pollack, Gerhard Bast, in uniforme delle Ss.

I “tedeschi delle terre di confine” si sentivano traditi, derisi e abbandonati dagli Asburgo di Vienna. Francesco Giuseppe, l’imperatore cattolico, era vicino agli slavi, secondo l’opinione diffusa a casa Bast. Come tanti rappresentanti dell’alta borghesia di lingua tedesca, anche i Bast voltarono le spalle agli Asburgo e si convertirono al protestantesimo, la “fede tedesca per natura”.

Quando nel 1911 a Gottschee (oggi Kočevje) nacque Gerhard Bast, suo padre Rudolf era già diventato protestante. Nella comunità germanofona di Gottschee, lavorava come apprendista in uno studio legale; ora al centro del suo pensiero politico c’era il “movimento pangermanico” dell’antisemita Georg von Schönerer. Il suo antisemitismo e l’antislavismo spesso non trovavano conferma nella vita privata. Rudolf Bast aveva affittato un piccolo rifugio nella foresta di Hornwald, e spesso ci andava con amici sloveni che condividevano la sua passione per la caccia. Suo nipote Guido Prister, per esempio, era il figlio di un commerciante di legname ebreo e della sorella di Rudolf ed Ernst, Josefine Bast. Prister, un “mezzo ebreo”, apparteneva alla cerchia più stretta della famiglia. Era “uno dei nostri”. Nella loro concezione di “nostri” si condensavano l’ambivalente antisemitismo e nazionalismo tedesco e la realtà della loro vita privata nella Bassa Stiria. Gerhard Bast trascorse il suo tempo con Guido, il “mezzo ebreo”, anche dopo il 1938, quando già da due anni era “entrato in servizio” nella Gestapo di Graz e nelle Ss.

La strada verso il nazismo

In anticipo sullo scoppio della prima guerra mondiale, Rudolf Bast si trasferì insieme alla moglie e al figlio Gerhard ad Amstetten. Nella piccola città della Bassa Austria l’avvocato non fece fatica a stringere nuovi legami con i nazionalisti tedeschi. Si iscrisse al Partito popolare nazionale tedesco, un partito nazional-conservatore che si sviluppò durante la Repubblica di Weimar. Dopo l’armistizio dell’inverno del 1918 Rudolf Bast provò il senso di amarezza condiviso da una generazione di “pensatori tedeschi”. Nell’agosto del 1931 entrò a far parte del Partito nazional-socialista tedesco dei lavoratori. Il figlio Gerhard, studente di giurisprudenza a Graz e membro entusiasta della “Germania”, come suo padre, lo seguì nell’ottobre del 1931. In seguito Gerhard entrò nelle Ss di Graz.

La strada che condusse i Bast al nazismo è esemplare. Non appena fu chiaro che Hitler avrebbe unito l’estrema destra nazista, abbandonarono la difesa nazionale della Stiria per aderire al partito. I “vecchi combattenti” Rudolf e suo figlio Gerhard si ponevano come nazisti nel regime austrofascista di Dollfuss, per il quale il partito nazista era fuorilegge e, nonostante la repressione, rivendicarono energicamente la loro ideologia fino all’Anschluss (l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938), che, soprattutto a Graz, equivalse a una presa del potere.

In particolare il percorso di Gerhard sembra già deciso dalla famiglia e dall’educazione ricevuta. Ma c’è una domanda alla quale, nonostante le ricerche approfondite, Martin Pollack ancora oggi non sa rispondere: perché suo padre scelse proprio la Gestapo? Gerhard Bast aveva svolto un ruolo centrale nel terrore del regime nazista. Doveva per forza sapere, prima di entrarne a far parte, che il lavoro nella polizia segreta di Himmler e Hitler portava a deportazioni e omicidi. Questa domanda accompagna Pollack da anni “come un’ombra oscura”. E sa che non potrà mai scrollarsela di dosso. “Tuo padre era un idealista”, ripeteva la nonna.

Martin Pollack è riuscito fin da adolescente a staccarsi dall’ambiente nazista della famiglia principalmente grazie al patrigno. Impiegato di banca e pittore, Hans Pollack, a sua volta convinto nazional-socialista, era affascinato da qualsiasi tipo di lavoro artigianale: poter creare o riparare qualcosa da soli per lui era di grande valore. Decise quindi di mandare i suoi due figli in collegio a Salisburgo. Negli anni cinquanta il liceo privato Werk­schulheim Felbertal era un progetto pilota dove, oltre a prendere la maturità, si poteva completare un apprendistato. Martin Pollack lo descrive come “un’oasi di tolleranza”. La scuola immunizzò Pollack dalle idee di casa a Linz e Amstetten. Più volte i nonni lo esortarono a unirsi a una confraternita. Il collegio di Salisburgo, tuttavia, gli garantiva una distanza fisica, mentre gli insegnanti e i compagni di scuola gli diedero gli stimoli che sarebbero stati la premessa per la rottura con l’ambiente nazista della famiglia.

Biografia

1944 Nasce a Bad Hall, in Austria.

1947 Il padre viene trovato morto in un bunker sul Brennero.

1959 La madre gli confessa che suo padre era un ufficiale delle SS.

1961 Decide di rompere i legami con la sua famiglia.

1987 Comincia a collaborare alla rivista tedesca Der Spiegel, facendo da corrispondente a Vienna e Varsavia.

2004 Scrive il libro Il morto nel bunker, un’inchiesta sulla vita del padre.


Per il padre di Pollack, Gerhard, il nonno Rudolf Bast aveva scelto una scuola diversa. Tra tutti i licei che sarebbero stati felici di aprire le loro porte al rampollo di un avvocato, lo mandò allo Schauer di Wels. La scuola godeva di un’ottima reputazione nei circoli nazionalisti tedeschi. Lì insegnava Moritz Etzold, capo dell’Associazione austriaca della ginnastica. “Frisch, fromm, fröhlich, frei” (Allegro, devoto, felice, libero), le quattro “F” del motto erano disposte a formare una svastica. Dopo il 1934, i nazional-socialisti avrebbero esibito quel simbolo come segno distintivo.

Nel 1951, il liceo Brg Wels celebrò il suo cinquantesimo anniversario con una cerimonia. “Venerdì 28 settembre, ore 19.30, fiaccolata”, si leggeva nel programma. Il giorno successivo, alle 8, “posa della ghirlanda sulla targa ai caduti nell’auditorium”. L’iscrizione rendeva omaggio agli ex studenti e insegnanti morti che “hanno sacrificato le loro vite nella seconda guerra mondiale”, si legge nell’elenco. Tra i nomi c’è anche “Bast, Dr. Gerhard”, capo della Gestapo di Linz e criminale di guerra, ucciso al Brennero nel 1947.

La famiglia Bast continuò a considerarsi l’élite del “movimento nazionale” anche dopo la fine della guerra. Tuttavia, come migliaia di altri nazisti austriaci, si sottrasse alle sue responsabilità. Il nonno di Pollack, Rudolf, ammesso nelle Ss a titolo onorario, passò un breve periodo in carcere e fu addirittura portato a Norimberga, ma nel giro di poco fu considerato un nazista “della prima ora” e poté tornare a Glasenbach. A suo fratello Ernst, più prudente e con amicizie più potenti, non successe niente. A Linz la madre e il patrigno di Pollack, il pittore Hans Pollack, rimasero fedeli alle loro convinzioni, anche se non con il fanatismo dei parenti di Amstetten. Di quel periodo Pollack ricorda sua madre nel giardino della casa di Linz che di punto in bianco cominciò a cantare: “Be-bop-A-Lula, i nazisti stanno tornando”.

Emarginato in casa sua

Si sentiva in dovere di raccontare la storia della sua famiglia? No, aveva sempre cercato di evitarlo, dice. Ma quando, per via dei suoi studi di slavistica, fece un viaggio in Polonia, qualcosa in lui si mosse. Poco dopo ruppe con i nonni. Se avesse sposato una polacca o un’ebrea, gli scrisse la nonna, lei non glielo avrebbe mai perdonato, avrebbero rotto ogni rapporto. Lui le rispose con un’altra lettera. E fu la fine.

Oggi ci ripensa con un misto di vergogna e tristezza. Non è stato lui a lasciare la sua famiglia. Tuttora, quando ne parla, Pollack pensa piuttosto che sia stata una dolorosa separazione. Il suo percorso, lontano da Amstetten e Linz, passando per il collegio di Salisburgo e gli studi a Vienna e Varsavia fino al confronto con il nazismo dei nonni e dei parenti, ha coinciso con una progressiva alienazione, rendendolo un emarginato in casa sua. Lo confessa senza problemi, quasi con il distacco dell’osservatore.

Se non è un dovere, la sua sincerità è forse un bisogno? Martin Pollack ci pensa, poi sorride. “Tutte le storie possono essere raccontate. Forse devono essere raccontate”. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati