Abraham Bredius era chiamato “il papa”, un soprannome che prendeva in giro la sua presunzione pur riconoscendone l’autorità. Era il maggiore studioso mondiale di pittura olandese e, in particolare, del misterioso maestro Johannes Vermeer. Quand’era più giovane Bredius si era fatto un nome individuando opere erroneamente attribuite a Vermeer. Nel 1937, a 82 anni, aveva appena pubblicato un libro molto apprezzato e, ormai in pensione, si stava godendo la vecchiaia nel principato di Monaco, quando gli fece visita Gerard Boon, un ex parlamentare olandese. Era andato da Bredius per conto degli antifascisti italiani. Avevano bisogno di raccogliere fondi per finanziare la loro fuga negli Stati Uniti. E avevano qualcosa che poteva essere di valore. Boon aprì la cassa che aveva portato fuori dall’Italia. Dentro c’era una grande tela, ancora sul suo telaio di legno del seicento. L’immagine raffigurava Cristo a Emmaus, quand’era apparso ad alcuni discepoli dopo la resurrezione, e nell’angolo in alto a sinistra c’era la firma magica: IV Meer. Johannes Vermeer. Era autentico? Solo Bredius poteva dirlo.
Incantato, il vecchio emise il suo verdetto: il Cristo a Emmaus non solo era un Vermeer, era l’opera migliore del maestro. Scrisse un articolo per The Burlington Magazine for Connoisseurs annunciandone la scoperta: “Qui abbiamo – sarei propenso a dire – il capolavoro di Johannes Vermeer di Delft. Molto diverso da tutti gli altri suoi dipinti e tuttavia un autentico Vermeer”. E aggiungeva: “Quando questo capolavoro mi è stato mostrato, ho avuto difficoltà a controllare le mie emozioni”.
Era proprio quello il problema. Quel Cristo a Emmaus era un falso. Ma anche se la frode era evidente, Bredius non fu l’unico a farsi ingannare. Anche a Boon avevano mentito: era il complice inconsapevole di un bravo falsario. Ben presto l’intero mondo dell’arte olandese cadde nella trappola. Il Cristo a Emmaus fu venduto al museo Boijmans di Rotterdam, che cercava disperatamente di affermarsi sulla scena mondiale. Bredius non solo esortò il museo a comprarlo, ma gli diede perfino un contributo. Fu pagato 520mila fiorini, pari a dieci milioni di dollari attuali.
Il quadro attirò folle ammirate e recensioni entusiastiche. Presto emersero altri dipinti in uno stile simile. Una volta accettato il primo falso, era più facile farne accettare altri. Non ingannarono tutti ma, come il Cristo a Emmaus, ingannarono le persone che contavano. I critici autenticarono i falsi, i musei li esposero, i collezionisti pagarono grandi somme per averli, fino all’equivalente di più di cento milioni di dollari attuali. Fu una truffa monumentale.
Ma anche un rompicapo. Vermeer è considerato uno dei più grandi pittori di sempre. Operò principalmente negli anni sessanta del seicento e si pensa che siano sopravvissuti non più di quaranta dei suoi dipinti. La scoperta di una mezza dozzina di nuovi Vermeer in pochi anni avrebbe dovuto apparire inverosimile. Ma non fu così. Perché? Non saranno i dipinti a darci la risposta. Se si confronta un autentico Vermeer con il primo falso, è difficile capire come qualcuno si sia lasciato ingannare.
Anche per gli amanti dell’arte meno esperti, Vermeer è un grande maestro. Pensate alla sua Donna che legge una lettera. È ritratta nella luce soffusa di una finestra. È incinta? Tiene la lettera vicino al petto e gli occhi bassi. C’è una drammatica immobilità nell’immagine: sentiamo che trattiene il respiro mentre scorre la lettera in cerca di notizie. In confronto, il Cristo a Emmaus è un’immagine grigia e statica. Il braccio con la manica gialla di un discepolo sembra più attaccato a un tavolo che al suo corpo, una sorta di protesi. Le palpebre di Cristo sono cadenti e strane: segni distintivi dello stile del falsario. Eppure quest’immagine ingannò il mondo. Perché furono tutti così creduloni? Guardando oggi a quell’intera comunità che cadde vittima di un’evidente truffa, cosa possiamo imparare?
Queste domande sono il motivo per cui trovo il falso Emmaus così affascinante. Negli ultimi anni ho visto persone convinte che Donald Trump fosse la persona giusta per eliminare la corruzione in politica, che il governo britannico “avesse il coltello dalla parte del manico” nei negoziati sulla Brexit con l’Unione europea, che il covid-19 non è peggio di un’influenza. Ci sono certe cose in cui molte persone credono nonostante le prove evidenti del contrario. Volevo capire perché ci sforziamo tanto d’ingannare noi stessi. Nel 2011 Guy Mayraz, un economista comportamentale dell’università di Oxford, condusse una ricerca sui pensieri illusori. Mostrò a un gruppo di persone un grafico del prezzo del grano che aumentava e diminuiva nel tempo e chiese a ognuna di loro di fare una previsione sull’andamento del prezzo, promettendo una piccola ricompensa in denaro se le loro previsioni si fossero avverate. A metà dei partecipanti Mayraz aveva detto che erano “agricoltori” e quindi sarebbero stati pagati di più se il prezzo del grano fosse salito; gli altri erano “fornai”, perciò avrebbero guadagnato di più se fosse sceso.
I partecipanti potevano ottenere due premi diversi: il primo se avessero fatto una previsione accurata; il secondo se il prezzo del grano fosse cambiato a loro favore. Il risultato fu che le persone tendevano a prevedere ciò che speravano accadesse. Gli agricoltori speravano in un aumento del prezzo e prevedevano che ci sarebbe stato. I fornai speravano e prevedevano il contrario. Il loro era un pensiero illusorio nella sua forma più pura: quando lasciamo che i nostri ragionamenti siano influenzati dai nostri sogni.
Questo è uno dei tanti studi su quello che gli psicologi chiamano “ragionamento motivato”. Ragionare in modo motivato significa riflettere su un argomento con l’obiettivo di raggiungere una specifica conclusione. A volte è un processo consapevole, come quello di un avvocato in aula o di un candidato in un dibattito politico. Spesso è istintivo, come la capacità illimitata di un tifoso di dare la colpa di una sconfitta all’arbitro.
Ho notato questo atteggiamento più volte durante la pandemia. Nell’estate del 2020, per esempio, c’è stato un momento in cui le persone hanno cominciato a rendersi conto che i tamponi per il covid-19 presentavano un certo tasso di falsi positivi: segnalavano la malattia anche quando non c’era. Da quella piccola pericolosa informazione è nata una teoria confortante: quando in Europa la prima ondata sarà passata, forse il virus sparirà completamente. Alcuni commentatori hanno dichiarato perfino che non ci sarebbe mai stata una seconda ondata. E quando le infezioni sono aumentate di nuovo, hanno affermato che si trattava solo di falsi positivi.
Questa storia non ha mai avuto molto senso. I falsi positivi esistono, ma perché dovrebbero aumentare? E poi sono aumentati anche i ricoveri. Poi i morti. E qualcuno continuava a parlare di falsi positivi, mentre il resto di noi vedeva la triste verità. Con il senno di poi, ci sembra qualcosa di tragico e ridicolo. Ma non sentiamoci troppo compiaciuti di averlo capito. Se la verità è dolorosa, siamo tutti capaci di aggrapparci a falsità confortanti. I politici irriducibili trovano sempre il modo di ignorare la dolorosa esperienza della sconfitta. Il leader laburista Jeremy Corbyn, dopo aver perso le elezioni del 2019 nel Regno Unito, ha detto che su molte questioni i laburisti avevano “avuto ragione”, un’affermazione che fa sorridere. Ha fatto di peggio Donald Trump, quando ha detto che le elezioni presidenziali statunitensi erano state truccate. E decine di milioni di persone ci hanno creduto.
Quello guidato dal pensiero illusorio non è l’unico tipo di ragionamento motivato, ma è il più comune. Un “contadino” vorrebbe fare una previsione accurata del prezzo del grano, ma vorrebbe anche guadagnare, quindi le sue previsioni sono influenzate dalla sua avidità. Un militante di partito vorrebbe che i suoi politici fossero intelligenti, brillanti e incorruttibili, quindi ignorerà o respingerà tutte le prove del contrario. E un critico d’arte appassionato di Vermeer è portato a concludere che il dipinto che ha di fronte non sia un falso ma un capolavoro. Non fu il Cristo a Emmaus a ingannare il mondo, ma un pensiero illusorio. E potremmo continuare a farci ingannare ancora oggi se il falsario non fosse stato scoperto per una combinazione di incoscienza e sfortuna.
L’inverno della fame
La sua disfatta cominciò la sera del 29 maggio 1945. In Europa la guerra era finita. La resa dei conti era appena cominciata. Al numero 321 della Keizersgracht, uno degli indirizzi più esclusivi di Amsterdam, bussarono due soldati della Allied art commission. Aprì la porta un artista e mercante d’arte di nome Han van Meegeren. Gli olandesi avevano rischiato la morte in quello che avevano chiamato “inverno della fame”, ma i soldati in visita potevano vedere che al 321 di Keizersgracht c’era di tutto in abbondanza. Van Meegeren aveva più di cinquanta proprietà sparse per la città. Al 738 della Keizersgracht, un quarto d’ora a piedi da lì, organizzava regolarmente orge durante le quali alle prostitute attirate nella sua orbita era offerta la possibilità di afferrare una manciata di gioielli mentre uscivano. Da dove venivano i soldi per tutto questo?
Un militante di partito vorrebbe che i suoi politici fossero brillanti e incorruttibili, quindi ignorerà tutte le prove del contrario
I soldati credevano di saperlo. Un capolavoro di Johannes Vermeer, La donna sorpresa in adulterio, era stato trovato in possesso di un nazista tedesco. E non un nazista qualsiasi, ma Hermann Göring, il braccio destro di Adolf Hitler. La documentazione permetteva di risalire a Van Meegeren, come molte altre transazioni che coinvolgevano dipinti di Vermeer. Dove aveva preso quei tesori nazionali?
Van Meegeren era nei guai: l’accusa di alto tradimento poteva comportare la pena di morte. Fu arrestato e condotto in prigione sotto la minaccia delle armi. Dopo giorni di furiose smentite, cedette. “Idioti! Credete che abbia venduto un Vermeer a quel ciccione di Göring? Ma quello non è un Vermeer. L’ho dipinto io”. Rivendicò anche gli altri, compreso il Cristo a Emmaus. Quella confessione sembrava assurda, un folle tentativo di sfuggire al plotone di esecuzione. Come pensava di dimostrarlo?
Ero solo un ragazzo quando lessi questa storia per la prima volta e rimasi affascinato dall’idea che lo spregevole Göring fosse stato ingannato da un falsario. Apprezzavo l’ironia della situazione in cui si era trovato Van Meegeren: per sfuggire all’esecuzione, doveva dimostrare di aver commesso un reato diverso. Non sono l’unico a esserne rimasto affascinato. Sono state scritte molte biografie di Van Meegeren, anche da personaggi autorevoli come lo scrittore Edward Dolnick e lo storico dell’arte Jonathan Lopez. Nel 2019 c’è stato anche un film, L’ultimo Vermeer.
Ma più studiavo questa storia, più scoprivo che il mio sguardo era attratto da Bredius, il critico d’arte caduto per primo nella trappola. Van Meegeren è affascinante perché sembra unico. Ma Bredius lo è per il motivo opposto: il suo errore è fin troppo tipico, è molto più di una nota a piè di pagina della storia dell’arte. Ci aiuta a capire perché compriamo cose di cui non abbiamo bisogno o ci innamoriamo delle persone sbagliate. Spiega perché votiamo politici che tradiscono la nostra fiducia, crediamo a teorie poco plausibili sul
covid-19 e ripetiamo dati statistici che solo a pensarci un attimo capiremmo che non possono essere veri.
Di recente ho pubblicato un libro su come usare i numeri per pensare chiaramente al mondo e avevo riflettuto su quale tipo di consiglio tecnico avrei dovuto dare per primo. Poi ho capito che non avrei dovuto dare nessun consiglio tecnico. Ho cominciato con il caso di Bredius. Quell’uomo ne sapeva di più sull’argomento di quanto la maggior parte di noi saprà mai su qualsiasi cosa, eppure si era fatto ingannare. Mi sono ricordato che Bredius aveva scritto: “Ho avuto difficoltà a controllare le mie emozioni”. Quell’affermazione era più vera di quanto lui stesso sapesse. Quando cerchiamo di interpretare il mondo che ci circonda, dobbiamo renderci conto che la nostra competenza può essere fuorviata dai nostri sentimenti.
Era stato il pensiero illusorio a permettere che Bredius rimanesse affascinato, ma il suo errore non era stato solo determinato dalla speranza di trovare un altro Vermeer. Aveva pubblicato una serie di ipotesi su una misteriosa lacuna nella carriera del maestro olandese. Forse si era dedicato ai temi biblici? Bredius aveva anche ipotizzato un legame con l’italiano Caravaggio. Van Meegeren era un falsario che conosceva fin troppo bene la sua vittima. Aveva dipinto l’Emmaus in modo da confermare le teorie di Bredius. Era sullo stesso tema e riecheggiava anche la composizione di un Emmaus intenso e sottovalutato di Caravaggio. Quando vide il quadro, Bredius non vide solo un dipinto, vide la prova che aveva sempre avuto ragione.
Macchie luminose
Una volta Molière scrisse che “uno sciocco dotto è più sciocco di uno ignorante”. La scienza sociale moderna fa pensare che avesse ragione. Nel 2006 i politologi Charles Taber e Milton Lodge analizzarono il ragionamento motivato a proposito del controllo delle armi e delle norme che tutelano le minoranze e le categorie deboli. Chiesero ad alcune persone di valutare vari argomenti a favore e contro ogni posizione e scoprirono, come ci si poteva aspettare, che le convinzioni politiche delle persone interferivano con la loro capacità di analizzare i punti di forza e di debolezza degli argomenti. Ancora più sorprendente era il fatto che leggere i pro e i contro spingeva le persone ulteriormente verso l’estremismo. Questo succedeva perché si aggrappavano agli argomenti che condividevano e respingevano rapidamente gli altri. Non solo: quest’effetto polarizzante era più forte nelle persone che già ne sapevano molto di diritti civili e di politica. Queste persone ben informate erano più capaci di scegliere con cura le informazioni che volevano. Più informazioni e più competenze producevano ragionamenti più fortemente motivati.
Negli Stati Uniti, quest’effetto è più evidente che mai nelle opinioni sulla crisi climatica: non solo c’è un enorme divario nel livello di preoccupazione per il cambiamento climatico tra gli elettori democratici e quelli repubblicani, ma questa divergenza aumenta tra repubblicani e democratici con un livello più alto d’istruzione e di conoscenze scientifiche. Una maggiore competenza non garantisce la verità: se abbinata a ragionamenti motivati, può alimentare ulteriormente la polarizzazione.
Ognuno di noi è capace d’innamorarsi di una bugia. Non esiste un metodo garantito per tenerci al sicuro, tranne che non credere a niente
Nel 1937, dalla sua villa di Monaco, Bredius ci offre l’avvertimento perfetto sulla pericolosa combinazione di pensiero illusorio e profonda competenza. Aveva notato alcuni dettagli del falso che sarebbero sfuggiti a un osservatore meno esperto. E quei dettagli lo avevano portato fuori strada. A un occhio inesperto, le macchie luminose sul pane potevano sembrare imperfezioni, ma avevano ricordato a Bredius quelle di un’allettante pagnotta nella Lattaia di Vermeer. Aveva notato che il quadro raffigurava una brocca d’acqua del seicento in una scena biblica, un anacronismo che sembrava confermare l’autenticità. Van Meegeren, ovviamente, era un passo avanti a lui. Aveva trovato un oggetto d’antiquariato dell’epoca e lo aveva usato come modello.
Van Meegeren aveva anche comprato un’antica e rara polvere di lapislazzuli da un fornitore londinese per ottenere un autentico blu Vermeer. E aveva dipinto su una tela del seicento, accuratamente ripulita dai pigmenti superficiali, ma che conservava le sue caratteristiche screpolature. Poi c’era il test più semplice di tutti: la pittura era fresca? Per chiunque voglia imitare un antico maestro il problema è che i colori a olio impiegano mezzo secolo per asciugarsi completamente. Eppure la pittura dell’Emmaus era dura, segno che era vecchia di secoli. Van Meegeren aveva escogitato un modo per mescolare i colori a olio del seicento con un materiale del ventesimo secolo: la resina fenolica che, se riscaldata a fuoco basso per due ore, si trasforma in bachelite. Non c’era da stupirsi se la vernice era dura: era mescolata con la plastica industriale.
Bredius aveva una mezza dozzina di ragioni per credere che l’Emmaus fosse un Vermeer, sufficienti per ignorare un motivo lampante per credere il contrario: il quadro non somigliava a nessun altro dipinto di Vermeer. Ripensate alla recensione entusiastica di Bredius su The Burlington Magazine: “Qui abbiamo – sarei propenso a dire – il capolavoro di Johannes Vermeer di Delft […] abbastanza diverso da tutti gli altri suoi dipinti e tuttavia un autentico Vermeer”.
“Molto diverso da tutti gli altri suoi dipinti”, non doveva essere un avvertimento? Ma il vecchio voleva disperatamente credere che fosse il Vermeer che aveva cercato per tutta la vita, quello che avrebbe confermato il collegamento con Caravaggio. Van Meegeren gli aveva teso una trappola in cui solo un vero esperto avrebbe potuto cadere. Il pensiero illusorio aveva fatto il resto.
Le autorità incaricate di assicurare Van Meegeren alla giustizia contribuirono involontariamente a rendere famosa la sua storia in tutto il mondo. I chimici forensi verificarono rapidamente che, come sosteneva Van Meegeren, i dipinti erano induriti con la bachelite e invecchiati con inchiostro indiano. Ma con un’acrobazia assurda, il pubblico ministero lo sfidò a dimostrare che era proprio lui il falsario dipingendo un altro quadro nello stile dell’Emmaus. E ovviamente lui lo fece, cogliendo l’occasione per incantare anche alcuni giornalisti. Uno dei titoli che uscirono fu: “Dipinge divinamente”.
I giornali olandesi e di tutto il mondo non potevano distogliere lo sguardo da quel grande showman. Quando arrivò il processo, nel 1947, l’accusa era di contraffazione, non di alto tradimento. Quando lo stesso Van Meegeren prese la parola, spiegò che aveva forgiato quell’opera solo per dimostrare il suo valore come artista e per smascherare gli esperti. “Ma ha venduto quei falsi a un prezzo esorbitante”, commentò il giudice. “Se li avessi venduti a un prezzo più basso”, disse scherzoso Van Meegeren, “sarebbe stato ovvio che erano falsi”. Qualcuno scoppiò a ridere. Nella sua deposizione conclusiva Van Meegeren affermò ancora una volta di non averlo fatto per i soldi e di non aver ricavato altro che guai. Fu l’audace dichiarazione di un uomo che organizzava festini a base di sesso scatenato mentre Amsterdam moriva di fame. Ma i giornali e il pubblico rimasero incantati quanto lo era stato Bredius. Anche se fu riconosciuto colpevole di falso, quando lasciò l’aula, Van Meegeren fu applaudito. Da un sondaggio d’opinione olandese emerse che era uno degli uomini più popolari del paese. E quella fu la fine della sua avventura. Nel giro di qualche giorno, fu ricoverato in ospedale per problemi cardiaci. Morì poco dopo. Per un po’ si parlò addirittura di dedicargli una statua.
Reazioni emotive
Ognuno di noi è capace d’innamorarsi di una bugia. Non esiste un metodo garantito per tenerci al sicuro, tranne il non credere a niente, mostrare un cinismo corrosivo, che è anche peggio della credulità. Ma posso suggerirvi una semplice abitudine mentale. Quando vi viene chiesto di credere a qualcosa – un titolo di giornale, una statistica, un’affermazione sui social media – fermatevi un attimo a riflettere sui vostri sentimenti. Vi mettete sulla difensiva, vi sentite giustificati, arrabbiati, compiaciuti? Prendete nota della vostra reazione emotiva. Dopo averlo fatto, forse penserete già in modo più chiaro. Allora qual è la vostra reazione alla storia del falsario? I primi biografi di Van Meegeren s’innamorarono di lui. Più recentemente abbiamo scoperto la verità. Il libro di Jonathan Lopez, The man who made Vermeers, è uno dei pochi a concentrarsi sul fatto che quel simpatico truffatore era un nazista. Le prove indiziarie sono abbastanza forti. Van Meegeren si era arricchito durante l’occupazione nazista, aveva comprato una serie di proprietà costose e organizzato festini decadenti. Non puoi comportarti così nel territorio occupato dai tedeschi a meno che tu non abbia stretto amicizia con alcuni nazisti. Ma la prova più significativa è Teekeningen 1, un sinistro e grottesco libro antisemita illustrato e pubblicato da Van Meegeren. Il libro è pieno di immagini naziste e, nonostante le privazioni che stavano subendo gli abitanti di Amsterdam in tempo di guerra, l’edizione è di lusso. Non c’è da stupirsi se si pensa al pubblico a cui era rivolto. Una copia fu consegnata ad Adolf Hitler, con una dedica scritta a carboncino: “Al mio amato Führer in riconoscente tributo, Han van Meegeren”. È stata trovata nella biblioteca di Hitler.
Cosa sarebbe successo se questa sconvolgente scoperta fosse stata fatta prima del processo a Van Meegeren? La verità sconcertante è che in realtà era successo. Un giornale della resistenza olandese aveva pubblicato la notizia e Van Meegeren l’aveva smentita, sostenendo di aver firmato centinaia di copie del libro e che la dedica doveva essere stata aggiunta da qualcun altro. È una scusa ridicola. Ma la gente voleva crederci. Il pensiero illusorio è davvero potente.
Se fosse coinvolto in uno scandalo simile, un Van Meegeren moderno direbbe: “Quella registrata non è la mia voce ” o liquiderebbe la storia come fake news. E i suoi ammiratori gli crederebbero. A quanto sembra, se mostrate alla gente un imbroglione con il senso dell’umorismo, la propensione a farsi beffe degli esperti e la capacità di sferrare qualche colpo a un nemico comune, gli perdonerà quasi tutto. Quello che non può perdonare troverà il modo di ignorarlo. La storia recente ha solo confermato questa lezione. Van Meegeren intuì che il popolo olandese desiderava disperatamente una nuova storia quanto Bredius voleva scoprire un nuovo Vermeer. Doveva essere un racconto leggero ma edificante, un episodio in cui un olandese si era vendicato audacemente dei nazisti.
Alla luce di quanto succede oggi, non dovremmo sorprenderci. Nella vicenda di Van Meegeren i fatti sembravano abbastanza ovvi. Ma i fatti non sono l’unica cosa che influisce su quello che pensiamo. Bredius aveva ragione quando scrisse: “Ho avuto difficoltà a controllare le mie emozioni”. Succede a tutti. ◆ bt
Tim Harford è un giornalista britannico. Quest’articolo riprende i temi trattati nel suo ultimo libro How to make the world add up: ten rules for thinking differently about numbers (The Bridge Street Press 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1408 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati