Quello che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato a Washington il 29 settembre non era un piano di pace, ma una sua parodia. Un accordo proclamato come una svolta, ma negoziato tra il complice statunitense e il carnefice israeliano, mentre il popolo di cui si sta decidendo la sorte è escluso dalla scena. Trump era raggiante accanto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ringraziandolo per aver “accettato” un piano che lui stesso ha scritto, mentre i palestinesi erano totalmente assenti. Niente Hamas, niente Autorità palestinese, neppure una presenza simbolica per conferire alla farsa un briciolo di credibilità.

Il piano perpetua la stessa logica coloniale che ha dato vita agli accordi di Abramo (firmati tra Israele e alcuni paesi arabi durante la prima amministrazione Trump): stringere accordi sulla Palestina senza i palestinesi. Celebrare la “pace” mentre si ignorano l’occupazione, l’assedio e la pulizia etnica. Scimmiottare il linguaggio della riconciliazione escludendo sistematicamente le uniche persone che hanno diritto a parlare per se stesse.

Questo accordo non è una negoziazione, è un’imposizione: è una resa travestita da alta politica.

Netanyahu in passato ha già ucciso o ha cercato di uccidere dei negoziatori, dal leader di Hamas Ismail Haniyeh a quelli presi di mira a Doha mentre si preparavano a discutere la bozza di accordo di Trump. La sua politica è sempre stata chiara: eliminare i negoziatori, eliminare i negoziati e poi mettersi al fianco di Wash­ington per annunciare un piano elaborato dagli alleati del genocidio.

Per dare dignità a questo spettacolo è stata convocata una schiera di leader arabi e musulmani, non perché difendessero i palestinesi, ma perché gli facessero pressioni. Il ruolo assegnato a questi paesi è fare da copertura per Trump e Netanyahu; il loro dovere non è proteggere la Palestina ma spingerla alla sottomissione. Lo stesso Netanyahu ha esclamato stupito: “Chi l’avrebbe detto” che i regimi musulmani avrebbero fornito la foglia di fico per il diktat di Israele?

Il vento sta cambiando

Ma al di là di questo teatrino, il piano è completamente privo di spessore. C’è un solo punto concreto: il ritorno degli ostaggi. Tutto il resto è fumo: nessuna garanzia di ritiro, nessun impegno vincolante, solo vaghe promesse, mentre le truppe israeliane rimangono saldamente al loro posto.

Quello che Trump ha offerto a Netanyahu non è stato un compromesso, ma una vittoria, quella stessa vittoria che non è stato capace di ottenere con la forza, dopo due anni di bombe e massacri.

Israele non è riuscito a schiacciare Gaza, non è riuscito a riportare gli ostaggi a casa con la guerra e non è riuscito a spezzare la determinazione dei palestinesi. L’accordo di Trump è il tentativo di trasformare la sconfitta in un trionfo, di ottenere con la diplomazia quello che non si è potuto conquistare sul campo di battaglia.

Ma Israele non è trionfante, è isolato. Alle Nazioni Unite Netanyahu ha preso la parola mentre 77 delegazioni abbandonavano l’aula lasciandolo declamare il suo discorso davanti ai seggi vuoti. I sondaggi in tutta Europa e negli Stati Uniti mostrano che l’opinione pubblica si sta nettamente spostando su una posizione contraria a Israele, con le giovani generazioni in testa. L’ondata di solidarietà globale con la Palestina cresce, e nulla terrorizza di più Washington e Tel Aviv.

Questo è il vero scopo dell’accordo: fermare l’ondata. Soffocare lo slancio dei boicottaggi, delle proteste e di una coscienza globale più forte. Sostituire al protagonismo dei palestinesi una tutela imposta, un “consiglio di pace” presieduto da Trump e diretto da Tony Blair, un uomo che con i suoi deliri coloniali e i suoi sanguinosi trascorsi in Iraq non sarebbe adatto a gestire il cortile di una scuola, figurarsi il futuro di Gaza.

Questa non è pace. È la Gaza humiliation foundation (un gioco di parole con Gaza humanitarian foundation, la fondazione sostenuta da Stati Uniti e Israele per distribuire gli aiuti a Gaza e contestata dalle organizzazioni umanitarie) riproposta su larga scala, lo stesso meccanismo di controllo esterno mascherato dal gergo umanitario. E i governanti musulmani che siedono accanto a Netanyahu (dagli emiratini che confabulavano con lui mentre il mondo alle Nazioni Unite gli voltava le spalle a quelli che sfilano dietro il palco di Trump) non sono alleati di pace. Sono complici di una resa.

Come ha affermato l’ex delegato egiziano alle Nazioni Unite, Motaz Khalil, questo non è altro che un “piano di resa”. Mette a tacere i palestinesi, li priva di una rappresentanza e consegna a Netanyahu la vittoria assoluta che aveva promesso e che non è riuscito a ottenere.

La storia non sarà clemente con questo momento. Un piano di cessate il fuoco che esclude gli occupati non è un piano di pace. È un diktat coloniale, il linguaggio del mandato e della tutela riproposto per il ventunesimo secolo. È la stessa arroganza che nella dichiarazione Balfour del 1917 promise ad altri la terra palestinese in assenza dei palestinesi e senza il loro consenso. Mandati, protettorati, amministrazioni fiduciarie, tutti gli eufemismi dell’impero sono riciclati per negare ai palestinesi la loro voce.

Trump e Netanyahu possono redigere tutti i piani che vogliono, ma fuori dalle loro sale riunioni il mondo sta reagendo. Milioni di persone manifestano, i boicottaggi si intensificano, l’opinione pubblica si orienta verso un’altra direzione. Il vento sta cambiando e nessun accordo sulla carta potrà frenarlo. La Palestina è diventata la coscienza del mondo, e non c’è negoziato che possa cancellare questo fatto. ◆ fdl

Soumaya Ghannoushi è una scrittrice britannica-tunisina esperta di Medio Oriente.

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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati