Sulla strada litoranea che collega la città di Gaza alle aree meridionali della Striscia devastata dalla guerra, un flusso di famiglie palestinesi si muove in silenzio portando con sé gli averi e secoli di memoria. Coperte, pentole, materassi e foto sono ammucchiati su carrelli e carri trainati dagli asini, caricati sulle spalle, o stretti saldamente tra le braccia dei bambini. I loro occhi vagano all’indietro, verso le rovine della città che stanno abbandonando, come se il passato custodisse più certezze del futuro.
Ogni passo verso sud o verso il centro dell’enclave costiera è straziante. “Andarsene da Gaza significa lasciarci alle spalle i nostri cuori. Non è solo un viaggio di chilometri, è un viaggio dell’anima che se ne va dal corpo”, dice Mohammed Abu Shar, un palestinese di Gaza. “Abbiamo provato a restare il più a lungo possibile. Ogni giorno ci dicevamo che i bombardamenti si sarebbero attenuati, che forse la situazione si sarebbe calmata. Ma gli attacchi si sono intensificati, raggiungendo ogni quartiere e ogni angolo della città”. E aggiunge: “I miei figli non riescono a dormire a causa delle continue esplosioni. Si coprono le orecchie e piangono. Alla fine non abbiamo avuto altra scelta che andarcene, anche se ci si spezza il cuore”.
Perdere la dignità
Raggiungere il sud non significa trovare sicurezza. Khan Yunis e Deir al Balah sono diventati accampamenti immensi e caotici dove la vita è ridotta all’essenziale. Le strade un tempo affollate di mercati e scuole oggi sono soffocate dalle tende costruite con teli di plastica strappati, pali di legno e stoffe cucite insieme.
Ma anche sopravvivere in questa miseria ha un costo. I commercianti sfruttano la disperazione, vendendo le tende a più di mille dollari l’una, mentre i proprietari di case fanno pagare anche a duemila dollari per una stanza. Famiglie che un tempo vivevano modestamente ma dignitosamente oggi sono ridotte a contrattare per avere un po’ di privacy.
Umm Mahmoud racconta di aver dormito per giorni all’aperto prima che dei parenti all’estero le inviassero il denaro per comprare una piccola tenda: “Qui si fanno affari su tutto, anche sulla sofferenza. Come può una famiglia povera pagare migliaia di dollari per un pezzo di stoffa legato a dei bastoni?”. Suo marito Mohammed aggiunge: “A Gaza abbiamo perso la nostra casa. Qui stiamo perdendo la dignità. Le famiglie dormono su pavimenti sporchi senza acqua, bagni o medicine. I prezzi aumentano ogni giorno, e nessuno controlla. Perfino la tela per le tende è venduta in dollari”.
Poco lontano, c’è Robin Maatouq, un sarto di 27 anni, che è stato costretto a vendere i suoi ultimi averi per trovare un riparo. “La mia bottega è stata distrutta. Ho cercato una piccola stanza in affitto, ma mi hanno chiesto 1.800 dollari”, racconta. “Ci sono persone che vendono i gioielli o i loro ultimi mobili per sopravvivere. Questa guerra ci sfolla con le bombe e poi ci schiaccia con la fame”.
Oltre il limite
Neppure i giornalisti, che hanno la responsabilità di documentare le sofferenze di Gaza, sono risparmiati. Khader fa il cameraman e ha perso la sua casa nei bombardamenti. Ha cercato di affittare un appartemento a Khan Yunis ma i proprietari lo mandavano via per timore degli attacchi israeliani ai giornalisti. “Mi sono sentito braccato, anche nella fuga”, dice. “Nessuno mi voleva vicino. Ho lasciato la mia famiglia in una tenda, mentre io dormo nei corridoi dell’ospedale Nasser. I miei figli mi chiedono perché non sto con loro. Ma non posso metterli in pericolo. Essere un giornalista qui significa perdere la casa, il lavoro e perfino il diritto di abbracciare i tuoi figli”.
Gaza non è più la città che la sua popolazione conosceva prima della guerra. Da settimane l’esercito israeliano la colpisce dal cielo, dal mare e via terra, radendo al suolo interi quartieri e riducendo al silenzio le strade un tempo piene di vita. Volantini e altoparlanti avvertono i civili che la città ora è una “zona di combattimenti pericolosa”, esortandoli a dirigersi verso sud lungo la strada litoranea Rashid nelle cosiddette aree umanitarie.
Dietro questo freddo linguaggio militare c’è la realtà di un esodo di massa. Convogli di sfollati intasano le strade: donne che trascinano bambini sfiniti, uomini che portano sacchi di farina sulle spalle, anziani appoggiati al bastone, che si fermano ogni pochi metri per riprendere fiato. Le famiglie si ammassano su carretti trainati da deboli asini o pagano qualsiasi cifra per assicurarsi un posto su un camion diretto a sud.
Salah Asaleya, un giovane sulla trentina originario del campo profughi di Al Shati, ricorda la sua odissea dopo aver finalmente raggiunto Deir al Balah: “Andarsene non è stata una scelta; è stato l’unico modo per sopravvivere. Ho pagato centinaia di dollari per arrivare qui con la mia famiglia. Ho trovato un pezzo di terra brulla su cui piantare una tenda, ma non c’è acqua, non c’è elettricità, non c’è vita. Gaza non è solo una casa o una strada, è la nostra anima. Ce ne siamo andati perché le bombe l’hanno resa un inferno, ma andarcene è come morire”. Per gli sfollati la sofferenza non finisce con il viaggio, ma ricomincia da capo. Il centro e il sud della Striscia sono già sopraffatti con scuole, moschee e piazze sovraffollate, e migliaia di tende che spuntano come funghi sul terreno. L’acqua pulita scarseggia, i servizi igienici sono quasi inesistenti e i farmaci stanno per finire.
◆Il 16 settembre 2025 l’esercito israeliano ha annunciato l’avvio della fase principale della sua offensiva di terra nella città di Gaza, dopo aver ricevuto il “sostegno incondizionato” del segretario di stato statunitense Marco Rubio, in visita a Gerusalemme il giorno precedente. “Gaza sta bruciando”, ha dichiarato il ministro della difesa Israel Katz. Le truppe hanno cominciato ad avanzare verso il centro della città, sostenute da bombardamenti incessanti che hanno provocato decine di vittime. Secondo un responsabile militare, il 40 per cento degli abitanti della città e dei dintorni, stimati in un milione dalle Nazioni Unite, è fuggito per raggiungere il sud della Striscia. L’esercito israeliano sostiene che tremila miliziani di Hamas sono ancora a Gaza.
◆Lo stesso giorno una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha accusato Israele di commettere un “genocidio” nella Striscia di Gaza, chiamando in causa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri alti funzionari. La commissione ha stabilito che il governo e l’esercito d’Israele hanno commesso quattro dei cinque atti motivati dall’intenzione “di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” individuati dalla convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. La commissione, che non si esprime a nome delle Nazioni Unite, non è un organo giudiziario, ma i suoi rapporti possono aumentare la pressione diplomatica internazionale e contenere prove che possono essere usate nei tribunali.
◆Tra il 15 e il 16 settembre le imbarcazioni della Global sumud flotilla, cariche di aiuti umanitari, hanno lasciato la Tunisia, dov’erano arrivate il 7 settembre, in direzione della Striscia di Gaza con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano. La prossima tappa è prevista a Malta, dove la delegazione si unirà ad altre barche partite dalla Corsica, dalla Sicilia e dalla Grecia. Gli organizzatori stimano che la traversata fino a Gaza durerà due settimane. Afp, Bbc
L’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa), riferisce che molte famiglie hanno camminato per ore sotto il fuoco, spesso senza una destinazione precisa. “Vanno verso l’ignoto. I bambini cadono a terra dalla stanchezza, le madri svengono, e gli anziani sono lasciati ai bordi delle strade”, ha dichiarato l’Unrwa in un comunicato.
La protezione civile di Gaza ha definito l’esodo uno “sfollamento forzato di massa”, sottolineando che le persone meno in grado di muoversi, i malati, i feriti, gli anziani, sono stati di fatto abbandonati. “È una catastrofe incommensurabile”, ha detto Mahmoud Basa, portavoce della protezione civile. ◆ fdl
Sally Ibrahim è la corrispondente daGaza del giornale panarabo The New Arab.
Iscriviti a Mediorientale
|
Cosa succede in Medio Oriente. A cura di Francesca Gnetti. Ogni mercoledì.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Mediorientale
|
Iscriviti |
Cosa succede in Medio Oriente. A cura di Francesca Gnetti. Ogni mercoledì.
|
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati