In Italia ci sono le stagioni. E poi c’è la stagione. Arriva l’estate, le angosce del paese vengono messe da parte e, al ritmo dell’eterno ritornello tutti al mare, comincia l’esodo verso la costa confortante. Il debito pubblico scompare tra le stelle e il cielo.
Quest’anno le cose sono un po’ diverse. Le persone fanno penzolare le mascherine dalle orecchie con stile disinvolto, oppure le tengono legate intorno al gomito, che usano per salutarsi. In spiaggia le sdraio sono disposte rispettando il distanziamento (a)sociale. E, con i negozi che consentono l’ingresso di due persone alla volta al massimo, le code per la focaccia sono così lunghe che nell’attesa si può leggere un giornale per intero (gli italiani ancora li leggono). I turisti statunitensi sono quasi spariti, come quelli russi. In spiaggia i bambini parlano del virus che ha cancellato tutto, e che offre un nuovo vantaggio per chi gioca a chiapparello.
La differenza è il covid-19, che rimane in agguato, come la consapevolezza che l’estate finirà. Contenuto, quasi sconfitto, eppure ancora là fuori, oltre il suono allegro e rumoroso delle cicale, che lascia gli italiani in un limbo tra liberazione e paura.
L’Italia è stata la prima tra i paesi occidentali a essere duramente colpita dalla pandemia. I suoi abitanti hanno conosciuto la solitudine di una nuova forma di morte. I suoi dottori hanno lottato in circostanze estreme. Tutti hanno visto i camion dell’esercito trasportare bare dai sovraffollati obitori di Bergamo verso lontani luoghi di cremazione.
E poi è successo qualcosa di strano. Dopo qualche passo falso iniziale, gli italiani hanno fatto quello che non riuscivano a fare dai tempi dell’unificazione della penisola, nel 1861: si sono compattati come un’unica nazione e hanno mostrato una forte volontà nazionale per affrontare il virus. Hanno accettato con disciplina di restare chiusi in casa. Hanno messo da parte le vecchie antipatie che di solito contrappongono settentrionali e meridionali, il vecchio campanilismo delle città con storie più antiche di quelle dello stato di cui fanno parte, il tradizionale scetticismo nei confronti della politica.
Sarei tentato di dire che il 2020 è stato l’anno della vera nascita dell’Italia, 159 anni dopo la frase attribuita allo statista Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Forse è un’esagerazione, ma contiene delle verità.
In Italia il tasso di nuove infezioni è sceso a uno dei livelli più bassi d’Europa, anche inferiore a quello della Germania. Questo mentre negli Stati Uniti – che dopo la seconda guerra mondiale spesero cifre incalcolabili per dare stabilità all’Italia – il virus si è diffuso incontrollato a causa dell’incapacità dei governanti. Al contrario degli italiani, gli statunitensi hanno vissuto la stagione della disgregazione.
Formiche e cicale
Ho parlato del suono delle cicale e del loro crescendo estivo. Nella favola di Esopo La cicala e la formica (generalmente nota in inglese come The ant and the grasshopper, la formica e la cavalletta), l’operosa formica trascorre l’estate ad ammassare provviste per l’inverno mentre la spensierata cicala passa il tempo cantando o, come si dice in italiano per descrivere una pigrizia sconsiderata, a grattarsi la pancia. Quando arriva l’inverno, la cicala affamata implora la formica di darle da mangiare. La formica, che aveva avuto ragione, le consiglia di passare l’inverno ballando.
In un articolo uscito di recente sul Corriere della Sera, lo scrittore Antonio Scurati si chiedeva: “Caro lettore, sei cicala o formica?”. La sua paura, spiegava, è che gli italiani tendano a essere cicale più che formiche. Il sole splende: torniamo un po’ a vivere e speriamo che l’emergenza sia passata per sempre.
In questa fase dell’epidemia, con l’aumento di casi in paesi come Spagna o Francia, molte società si trovano a scegliere tra l’atteggiamento della formica e quello della cicala. Confesso di essere, per inclinazione, più cicala che formica. Non perché tenda alla pigrizia – almeno spero – ma per la convinzione che una vita vissuta nella paura e nell’ossessiva prudenza non sia degna d’essere vissuta. Cosa è preferibile tra l’allegro e rumoroso piacere della cicala e il prudente accumulo di provviste della formica, tra una vita breve e felice e una lunga e repressa?
La risposta non è ovvia. Come nella maggior parte delle cose della vita, la soluzione sta nel mezzo. È altrettanto difficile capire in quale momento le precauzioni prese per arginare il virus – che sono ragionevoli e permettono di salvare vite – diventano paure irragionevoli, che distruggono posti di lavoro, chiudono le scuole e avvelenano la vita. Tanto più difficile perché la paura dilagava in molte società anche prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria. Per l’Italia la domanda fondamentale è come non ricadere nel caos dopo aver trovato, a causa della crisi, un’efficace unità nazionale.
Torneranno le divisioni e le delusioni, ma credo che niente potrà vanificare quello che l’Italia ha rivelato di se stessa. A livelli inimmaginabili per gli Stati Uniti di Donald Trump, e più di quanto abbiano fatto molti altri popoli europei, gli italiani hanno mostrato qual è l’insegnamento di una lunga storia: la saggezza civica.
Una favola estiva ha appassionato l’Italia. Quella dell’Atalanta, una piccola squadra di calcio di Bergamo, la città del nord che è stata l’epicentro dell’epidemia. Contro ogni attesa, l’Atalanta ha raggiunto i quarti di finale della principale competizione d’Europa, la Champions League. A Lisbona, in uno stadio vuoto, ha affrontato il Paris Saint-Germain, la ricca squadra della capitale francese, di proprietà del fondo sovrano del Qatar. Quando l’Atalanta è passata in vantaggio nel primo tempo, rumorose manifestazioni di gioia hanno attraversato la penisola italiana.
Ho guardato la partita con Antonio Colpani e Laura Vergani, entrambi di Bergamo. Colpani mi ha raccontato di come sua madre abbia rischiato di morire di
covid-19 e di come lui stesso abbia lottato contro il virus. Vergani ha ricordato il costante suono delle sirene e il giorno in cui hanno smesso di suonare, perché comunque le strade erano vuote e le autorità locali avevano concluso che quel rumore mandava le persone nel panico. “Abbiamo vinto”, mi ha detto Colpani. “Non mollare”. Ha sorriso mentre pronunciava questa frase, diventata il motto di Bergamo: mola mia, come si dice in dialetto bergamasco.
L’Atalanta ha caparbiamente mantenuto il vantaggio fino all’ultimo minuto. Poi il Paris Saint-Germain ha pareggiato, e poco dopo ha segnato di nuovo, vincendo la partita per 2-1. Sarebbe stato meraviglioso se la favola fosse continuata, ma forse per l’Italia quest’atroce sconfitta è stato un salutare bagno di realtà in questo limbo estivo, un briciolo di formica nella canzone della cicala.
“È la vita”, ha detto Colpani. “Tutto può cambiare in un minuto”. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati