Appena un segreto arriva alla portata di tutti, smette di essere un segreto. Nel momento in cui lo condivido, quel “tesoro nascosto” di cui muoio dalla voglia di parlare, diventa molto meno nascosto, molto meno un tesoro.

Cosa dovrebbe fare quindi uno scrittore di viaggi? La premessa di questo lavoro consiste proprio nel fornire spunti interessanti che altrimenti si farebbe fatica a scoprire. Ma quando questi piccoli gioielli nascosti diventano più noti, i lettori comprensibilmente s’indignano (quel caffè tranquillo e con prezzi ragionevoli improvvisamente diventa caotico e caro), mentre gli abitanti del posto si chiedono fino a che punto maledire l’assalto dei visitatori e quanto invece provare ad approfittarne.

Questo dilemma per me è particolarmente doloroso perché da trentasette anni vivo nei dintorni della città giapponese di Kyoto. Nei miei primi trent’anni qui ho sofferto perché nessuno voleva venire a trovarmi. Ora mi lamento perché sembra che vogliano farlo tutti. Ogni mese ricevo decine di messaggi da amici, lettori e perfetti sconosciuti che cercano consigli sulle meraviglie giapponesi meno note. Capisco questo desiderio. Nel 2023 più di 75 milioni di persone hanno visitato la prefettura di Kyoto e mi è sembrato che camminassero quasi tutti lungo i sentieri stretti e un tempo silenziosi che magicamente portano al tempio Kiyomizu.

Naturalmente un viaggiatore esperto sa escogitare delle alternative. Spesso per mangiare consiglio il mio secondo izakaya preferito, con lo stesso spirito con cui dico agli amici che stanno pensando di andare in Nepal che forse potrebbero valutare la regione himalayana del Ladakh, meno sviluppata, o a quelli che si precipitano a Kyoto di provare invece la più tranquilla e culturalmente raffinata Kanazawa, a due ore di distanza. A un amico confiderò il mio segreto preferito, mentre a un estraneo offrirò qualcosa di più generico. Anche perché so che la vera gioia di chi viaggia nasce dallo scoprire da soli tesori nascosti. Al massimo potrei suggerire un sentiero limitrofo, diretto in un posto di cui non ho mai sentito parlare.

In un mondo silenzioso

La speranza incrollabile del viaggiatore è che la bellezza sia resiliente. L’anno scorso mi è capitato di passare tre notti a Kyoto subito dopo essere stato in California. Ogni mattina mi alzavo alle 3.15, e cinque minuti dopo sgattaiolavo fuori (erano le 11.20 del mattino per la mia mente e per il mio stomaco californiani).

Le strade erano deserte, tranne per qualche ragazzo giapponese di ritorno a casa dopo una lunga nottata. Ho conosciuto i simpatici uomini provenienti dal sud dell’Asia che lavoravano nel piccolo supermercato dove ogni mattina compravo una bottiglietta di tè con latte caldo e una ciambella. La cosa migliore di tutte era poter salire verso il tempio Kiyomizu avendo quei sentieri mozzafiato, di solito pieni di pellegrini, tutti per me.

Quando, dopo un’ora, il cielo diventava indaco – un crepuscolo al contrario – mi sembrava di vagare da solo in una stampa di Hiroshige. Con il passare del tempo cominciavano ad arrivare alcune persone del posto, per portare a passeggio il cane o per godersi la frescura del primo mattino. In un modo inaspettato ero tornato in quel mondo silenzioso e incontaminato che mi attendeva quando trentasette anni fa avevo lasciato il mio ufficio al venticinquesimo piano di un palazzo di Midtown Manhattan, a New York, per vivere in un semplice tempio in questo quartiere giapponese.

Kyoto ha attraversato ogni genere di trasformazione nei suoi 1.230 anni di storia, e spesso penso al fatto che migliaia di persone ogni giorno camminano intorno alla cattedrale parigina di Notre-Dame e in pochi ne restano delusi.

Tuttavia, il paradosso insito nella condivisione di “segreti” si è acutizzato in modo esponenziale negli ultimi vent’anni. Quando ho cominciato a scrivere delle meraviglie degli altri paesi, potevo decantare quel gioiello nascosto del Lotus café di Ubud, perché poche persone avrebbero letto il mio resoconto e ancora meno erano quelle che potevano sognare, nel 1988, di volare a Bali. Oggi un riferimento a un bar “segreto” a Barcellona potrebbe raggiungere undici milioni di persone in ogni angolo del pianeta, e molte di loro presto andranno in Spagna, o conoscono qualcuno che lo farà.

Ormai ci sono sempre lunghe file davanti a quel ristorante di gyoza in fondo alla strada, diventato famoso perché era frequentato dalle persone del posto. Ora quelle stesse persone non possono più andare nel locale che per decenni è stato la loro seconda casa. E un bel po’ di quegli undici milioni di lettori si lamentano perché questo “consiglio speciale” non è affatto così speciale.

Chi recensisce libri o film non si trova mai di fronte a un dilemma simile, e se un romanzo o un documentario poco noto improvvisamente vince un riconoscimento molti se ne rallegrano. Ma le destinazioni di viaggio sono fragili, sotto vari punti di vista, e spesso non possono sostenere il peso di migliaia di turisti. Quando navigavo intorno all’Antartide, mentre mi meravigliavo della sua bellezza ultraterrena, ero egoisticamente felice che quel luogo non fosse accessibile a molti visitatori, per l’estrema precarietà del suo ambiente.

Non per tutti

A volte semplicemente mi rallegro del fatto che i miei gusti non corrispondono a quelli di tutti gli altri. Dopo aver scritto di quell’albergo confortevole su una spiaggia nello Yemen tormentato dalla guerra nel 2001, o di quella squisita pizzeria-ristorante che ho scoperto nel centro culturale di Teheran nel 2013, non ho saputo di nessun lettore che ci sia andato, né che li abbia trovati troppo affollati.

Quando mi dilungo a parlare delle gioie del vagare per Singapore alle tre del mattino e del vedere il lato non ufficiale di questa città così perbene – il suo subconscio, potremmo chiamarlo – mi sembra che non sono in tanti a volare dall’altra parte del mondo in cerca di piaceri così arcani.

Altre volte penso che chiunque abbia l’intraprendenza e la tenacia per raggiungere una delle mete “segrete” da me suggerite si meriti una ricompensa. L’estate scorsa mi sono imbattuto in una strada di venti chilometri a malapena asfaltata, avanzando a tratti lungo un sentiero a strapiombo su un burrone profondo qualche decina di metri, per arrivare al monastero di Cristo nel deserto vicino Abiquiú, nel New Mexico. È un luogo che pochi visitatori possono dimenticare, ma che per fortuna in pochi raggiungeranno perché le piogge rendono le strade impraticabili e la fine del cammino svela poco più che una semplice chiesa, un agglomerato di piccole stanze e un silenzio desertico.

All’inizio di quest’anno ho pubblicato un libro su un altro monastero benedettino in California, dove fin dal 1991 vado regolarmente per dei soggiorni. I miei amici temevano che le mie descrizioni potessero mettere in pericolo quell’atmosfera di clausura e silenzio che io decantavo. Ma questo rischio non mi spaventava molto.

Nei miei più di cento soggiorni ho visto i monaci montare nuove casette prefabbricate, ampliare le loro strutture e ammodernare molte stanze. Nulla di tutto ciò sembra intaccare il silenzio o la luce di quel luogo. C’è ancora spazio solo per venti visitatori alla volta e sono convinto che praticamente chiunque ci andrà troverà la pace che sta cercando, portando anche felicità ai monaci (che hanno bisogno di racimolare tremila dollari al giorno solo per tenere viva la loro comunità).

Qui in Giappone i miei vicini sono combattuti sull’opportunità di rivelare o meno i loro segreti. Da una parte, i cittadini più anziani di Kyoto non riescono più a trovare posto sugli autobus locali perché c’è una folla di visitatori che vuole andare a mangiare il ramen in quel locale nel vicolo condiviso su TikTok. Dall’altra, in un paese con un’economia in affanno da trent’anni, ogni fonte di entrate è benvenuta.

Forse dovrei solo consigliare ai lettori i posti da evitare (l’aeroporto di Francoforte, per esempio, o la superstrada di Los Angeles tra le 7 e le 10 del mattino). Oppure dovrei esortarli ad andare in luoghi poco considerati che purtroppo sembrano destinati a rimanere tali: l’Oman, l’Etiopia e Pittsburgh, che a me hanno tutti offerto grandi gioie, più e più volte.

In alternativa potrei semplicemente limitarmi alla finzione letteraria. Quando ambiento una scena di un romanzo in un’incantevole locanda in legno della California che non ha bisogno di serrature alla porta, dove il suono di un ruscello impetuoso addolcisce la notte, alcuni lettori sorrideranno riconoscendo quel posto, altri semplicemente cercheranno un luogo con un’atmosfera simile.

Trasmettere ad altri il proprio entusiasmo e le proprie scoperte è uno dei pochi piaceri che la vita ci offre. Ma il piacere più grande di tutti potrebbe essere proprio scoprire qualcosa di cui nessun altro ha mai parlato. ◆ fdl

Pico Iyer è uno scrittore e saggista nato nel Regno Unito da genitori indiani. Dal 1992 vive in Giappone. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono L’arte della quiete. Come viaggiare stando fermi (Rizzoli 2015) e La vita a metà conosciuta. Viaggi in cerca del paradiso (Einaudi 2025).

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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati