Già prima che la nuova miniera diventasse l’argomento principale delle conversazioni del suo villaggio, João Cassote, un allevatore di bestiame di 44 anni, stava pensando di cambiare lavoro. Vivere dei frutti della terra tra i monti del nord del Portogallo stava diventando troppo faticoso, e tutti i suoi amici d’infanzia erano già andati a cercare fortuna all’estero. Nel 2017, dopo aver saputo che una società mineraria britannica stava cercando il litio nella regione di Trás-os-Montes, Cassote ha chiamato la sua banca e ha chiesto un prestito di 200mila euro. Ha comprato un trattore John Deere, una ruspa e un serbatoio portatile per l’acqua.

Da mesi il team di esplorazione della Savannah Resources stava studiando le mappe e i rilevamenti geologici delle colline intorno alla sua fattoria. Le stime iniziali indicavano la presenza di almeno 280mila tonnellate di litio – un metallo alcalino di colore bianco-argenteo –, una quantità sufficiente per dieci anni di produzione. Cassote si è messo in contatto con la sede locale della Savannah e l’azienda si è subito accordata con lui, incaricandolo dell’approvvigionamento idrico del sito di trivellazione. Il ritorno sull’investimento è stato quasi immediato: dopo meno di dodici mesi, Cassote aveva già incassato quello che guadagnava in cinque o sei anni alla fattoria.

La Savannah è solo una delle tante aziende estrattive che hanno messo gli occhi sui ricchi giacimenti di litio del centro e del nord del Portogallo. L’improvviso fermento intorno al petróleo branco, il petrolio bianco, è legato a un’invenzione che da queste parti si è vista poco: l’auto elettrica. Il litio, infatti, è un materiale attivo fondamentale per le batterie ricaricabili che alimentano i veicoli elettrici. Si trova nei depositi di roccia e argilla come minerale solido, oppure sciolto in salamoia. È molto apprezzato dai produttori di batterie perché, essendo il metallo meno denso, riesce a immagazzinare una grande quantità di energia in rapporto al peso.

L’elettrificazione dei trasporti è diventata una priorità per la transizione verso un futuro a basse emissioni di anidride carbonica. In Europa, gli spostamenti in auto sono responsabili di circa il 12 per cento delle emissioni totali. Per essere in linea con l’accordo di Parigi sul clima, le emissioni di automobili e furgoni dovranno diminuire di più di un terzo (il 37,5 per cento) entro il 2030. Poiché l’Unione europea si è data l’obiettivo molto ambizioso di ridurre le emissioni complessive di gas serra del 55 per cento entro la stessa data, Bruxelles e i paesi membri stanno investendo milioni di euro per incentivare gli automobilisti a passare all’elettrico. Alcuni paesi hanno fatto un passaggio ulteriore, vietando la vendita di veicoli diesel e a benzina nel prossimo futuro (già nel 2025, nel caso della Norvegia). Se tutto andrà secondo i piani, entro il 2030 il numero di veicoli elettrici in Europa passerà dai circa due milioni attuali a 40 milioni.

Il litio è fondamentale per questa transizione energetica. Le batterie agli ioni di litio, infatti, sono usate non solo per alimentare le auto elettriche, ma anche per immagazzinare energia di rete, per gli smartphone e per i pc portatili. Il problema dell’Europa, però, è l’approvvigionamento. Al momento quasi la totalità del litio che viene usato per le batterie è importato dall’estero. Nel 2020 più della metà (il 55 per cento) del litio prodotto a livello mondiale proveniva da un unico paese: l’Australia. Altri grandi paesi produttori, come il Cile (23 per cento), la Cina (10 per cento) e l’Argentina (8 per cento), sono altrettanto lontani.

In Cile alcuni territori sono sempre stati “sacrificabili” in nome del progresso

Giacimenti di litio sono stati scoperti in Austria, in Serbia e in Finlandia, ma è sul Portogallo che sono riposte le più grandi speranze per il litio europeo. Il governo portoghese si prepara già a mettere all’asta le licenze per l’estrazione e a sfruttare le sue riserve di “petrolio bianco”. Per l’Europa, estrarre il litio nel “cortile di casa” significherebbe non solo una logistica più semplice e prezzi più bassi, ma anche meno emissioni legate ai trasporti. Senza contare la sicurezza degli approvvigionamenti, un problema reso ancora più urgente dal blocco del commercio globale imposto dalla pandemia di coronavirus.

Le preoccupazioni legate all’approvvigionamento del litio, in realtà, erano cominciate già prima della pandemia. Thea Riofrancos, docente di economia politica al Providence college nel Rhode Island, negli Stati Uniti, sottolinea per esempio l’aumento delle misure protezionistiche e delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina (a cui si aggiungono le recenti frizioni tra Pechino e l’Australia). Quali che fossero le preoccupazioni dei politici europei prima della pandemia, dice Riofrancos, “ora saranno un milione di volte di più”.

L’urgenza di assicurarsi una fornitura diretta di litio ha scatenato un boom estrattivo, e la corsa al “petrolio bianco” rischia di causare danni ambientali ovunque lo si trovi. Le aziende estrattive, però, hanno un ruolo fondamentale nel ridurre le emissioni, e quindi la politica ambientale dell’Unione è dalla loro parte.

“Dietro a tutto questo c’è una questione di fondo che riguarda il nostro attuale modello di consumo e di produzione, che semplicemente non è sostenibile”, osserva Riofrancos. “Un’auto elettrica a testa comporterebbe un enorme lavoro di estrazione e raffinazione, con tutte le attività inquinanti che ne derivano”.

Il posto perfetto

Nel piccolo eremo di Muro nel Trás-os-Montes, Cassote è preoccupato. La fase di prospezione si è conclusa all’inizio dell’anno e i nuovi e costosi macchinari che ha acquistato sono fermi. La Savannah sta aspettando il via libera definitivo dal governo portoghese alla sua miniera di litio, nella quale ha promesso di investire 109 milioni di dollari. Se il progetto andrà in porto, verrà scavata un’enorme cava, come una ferita aperta sul fianco della montagna. A Cassote non importa, vuole solo rimontare sulla sua ruspa. Non tutti, però, condividono il suo entusiasmo. Dopo trent’anni ad Amsterdam, Mario Inacio, un ballerino professionista di cinquant’anni, è tornato a casa in Portogallo con l’intenzione di aprire un centro yoga in campagna, un luogo bucolico e isolato dove gli ospiti possano svegliarsi con il cinguettio degli uccellini.

Inacio e il suo compagno, Milko Prinsze, hanno trovato il posto perfetto, una fattoria abbandonata circondata da 19 ettari di verde nel centro del Portogallo. La casa era quasi completamente da ristrutturare, ma il resto era proprio come l’avevano sognato. Scendendo per la prima volta in macchina lungo il vialetto tortuoso e accidentato, Inacio già immaginava i possibili cambiamenti: allargare la casa su un lato, convertire i capannoni in alloggi privati, ricavare una piscina naturale in mezzo alle rocce. Aveva anche individuato il posto per la sala yoga: un piccolo rialzo con vista sui prati e sulle colline.

A sei anni di distanza da quella prima visita, oggi Quinta da lua nova è finalmente pronta ad accogliere gli ospiti. Con la pandemia i clienti stranieri scarseggiano ed è difficile riempire le nove stanze della struttura, ma una minaccia molto più grave incombe sull’attività in cui Inacio ha investito i risparmi di una vita. Spostandosi verso una delle grandi finestre al piano terra della nuova casa, Inacio indica la rigogliosa campagna circostante. “Tutto questo rischia di essere cancellato dal litio. L’esplorazione può partire da un momento all’altro”.

Negli ultimi anni in tutto il Portogallo sono nati piccoli gruppi di residenti preoccupati dai piani del governo sull’estrazione del litio. Dato che le notizie ufficiali scarseggiavano, questi gruppi hanno cominciato a rivolgersi ai dipartimenti di urbanistica e ai municipi locali per avere chiarimenti. Nel caso di Inacio, gli è stato detto che le sue richieste sarebbero state “trasmesse”. Nessuno però si è fatto più sentire. Nel frattempo, in tutto il paese sono cominciate le prime attività esplorative di aziende come la Savannah o la portoghese Lusorecursos. Uno degli oppositori al piano del governo ha scoperto che il ministero dell’energia aveva commissionato una valutazione tecnica delle risorse di litio in Portogallo già nel 2016. Un portavoce del governo ha confermato che c’erano trattative in corso con diverse aziende minerarie, ma che ancora non era stata presa nessuna decisione definitiva.

Macchine elettriche Zd, 2017 (Matjaž Krivic, Institute)

Poi, a gennaio 2020, tra i vari gruppi WhatsApp e Facebook creati da cittadini preoccupati come Inacio ha cominciato a circolare una mappa, realizzata da uno sviluppatore di software locale specializzato in cartografia. La mappa sembrava confermare le loro peggiori paure: la regione interna del Portogallo era tappezzata di forme geometriche adiacenti ai parchi naturali del paese. Da allora una serie di manifestazioni di protesta, a livello locale e nazionale (nel 2020 c’è stata anche una marcia a Lisbona) hanno cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto ambientale dell’attività estrattiva, dalla massiccia distruzione degli habitat alla contaminazione chimica, dall’inquinamento acustico all’aumento del consumo dell’acqua. Per non parlare delle conseguenze sul turismo, un pilastro dell’economia delle regioni interne, con un fatturato nel 2019 di 18,4 miliardi di euro.

Tutte queste preoccupazioni sono state elencate in un “manifesto nazionale” recentemente pubblicato da una coalizione di movimenti civici. Nonostante la grande eco sui mezzi d’informazione locali, però, finora la campagna ha dato scarsi risultati, anche a causa della relativa debolezza del movimento ambientalista portoghese. Il Portogallo è uno dei pochi paesi in Europa a non avere un ufficio di Greenpeace, e secondo uno studio europeo, tra tutti i consumatori dell’Unione, i portoghesi sono i meno propensi a pagare di più per i prodotti ecologici.

Per Maria Carmo, 43 anni, docente universitaria di Barco, un piccolo paese nel distretto di Castelo Branco, questo scarso interesse è lo specchio dello scollamento tra la maggioranza dei cittadini, che vivono nelle città o sulla costa, e il cuore rurale del Portogallo. Negli ultimi cinquant’anni c’è stato un progressivo spopolamento delle campagne. Centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato le zone interne del paese, già povere e sottopopolate, per rifarsi una vita all’estero o nelle città costiere. Molti di loro non torneranno più.

Se nella regione sarà concessa una licenza estrattiva, Inacio e un piccolo nucleo di irriducibili sono pronti a battersi in tribunale. Carmo, invece, è meno sicura: il suo gruppo è già diviso, con la metà delle persone che non si oppone a priori alla possibilità di una miniera di litio a cielo aperto sopra il suo paese. È una cosa che succederà comunque, dicono, quindi perché non negoziare alcune garanzie? A Barco c’era già una miniera di stagno, osservano i residenti storici, e non era poi così male.

Carbonato di litio destinato a una fabbrica vicino a Potosí, Bolivia, 2016  (Matjaž Krivic, Institute)

Secondo Carmo, però, le due situazioni non sono confrontabili. Sia suo padre sia suo nonno lavoravano nella vicina miniera di stagno di Argemela, chiusa nei primi anni sessanta. All’epoca però le miniere erano piccole e sotterranee. Oggi una nuova miniera rischierebbe di far scomparire metà della collina, e di danneggiare i resti di un insediamento dell’età del bronzo sulla cima. Gli abitanti temono anche che i residui chimici liquidi inquineranno il vicino fiume Zêzere, fondamentale per i loro raccolti.

Dopo tre anni di battaglia, Carmo è esausta e pronta a cedere. Ha capito che il governo è sordo a tutte le richieste e che i suoi concittadini non sono interessati. “Distruggere tutto, e per cosa? Per vendere auto a emissioni zero ai parigini e ai berlinesi e farli sentire più ecologici?”.

I fautori dell’auspicato boom del litio in Portogallo controbattono che i disagi locali sono un piccolo prezzo da pagare nella lotta alla crisi climatica, e che anche i parchi eolici, le centrali di energia solare e gli impianti idroelettrici, che pure contribuiscono a ridurre le emissioni di CO2 a lungo termine, hanno un impatto sulle comunità locali. In una nota agli investitori, la Savannah sostiene che la sua miniera (che, se approvata, dovrebbe portare ricavi per 1,55 miliardi di dollari nei primi undici anni di attività) contribuirà a produrre un numero di batterie sufficiente a prevenire l’emissione di cento milioni di tonnellate di anidride carbonica.

L’amministratore delegato della Savannah, David Archer, si spinge oltre. Nel suo ufficio di Londra descrive l’investimento multimilionario dell’azienda come un progresso della “qualità dei beni comuni globali”. La sua equazione è semplice: litio uguale batterie, uguale auto elettriche, uguale fine delle emissioni nei trasporti, uguale un mondo meno vulnerabile di fronte all’emergenza climatica. A tutto questo si aggiunge la prospettiva di nuovi posti di lavoro nell’area interessata (fino a 800 a Trás-os-Montes), un maggior gettito fiscale e uno stimolo di 437 milioni di euro all’economia portoghese. Dal punto di vista dello sviluppo, dice, “è una scelta quasi obbligata”.

Il traghetto elettrico Future of the fjords, Norvegia, 2018  (Matjaž Krivic, Institute)

Il governo portoghese concorda. In un video promozionale rivolto agli investitori stranieri, il ministro dell’ambiente definisce il suo paese “uno dei leader mondiali nella transizione energetica”. Il video sottolinea il “forte impegno” del governo nel campo dell’innovazione ecologica.

I contestatori replicano che di fronte al profitto l’impatto ambientale passa quasi sempre in secondo piano. Lo stesso dilemma ha frenato i colloqui internazionali sul clima per anni, osserva Harjeet ­Sin­gh, responsabile internazionale per il clima della ong ActionAid. Il nord del mondo chiede obiettivi di riduzione delle emissioni più severi; il sud chiede più sviluppo economico e ritiene giustamente che l’onere di affrontare la crisi climatica dovrebbe ricadere sulle società postindustriali, che ne sono le prime responsabili. “Le tecnologie verdi sono essenziali per il passaggio alle energie rinnovabili”, dice Singh, “ma non sono prive di effetti negativi e dobbiamo garantire che non ricadano sempre sulle comunità più povere ed emarginate”.

Il tesoro di Atacama

In Cile la battaglia sull’impatto dell’attività estrattiva è cominciata decenni fa. L’attivista Ramón Balcázar, 36 anni, nato e cresciuto nella regione ricca di rame di O’Higgins, nel centro del paese, si è reso conto dei possibili danni su larga scala delle miniere fin da quando era bambino. Negli anni novanta la sua infanzia è stata segnata da una serie di dispute, dall’uso del suolo ai diritti sull’acqua fino all’inquinamento chimico. Sei anni fa si è trasferito a nord, a San Pedro de Atacama. Sul bordo della famosa distesa di sale delle Ande, la città affaccia su un ruvido tappeto riarso dal sole color bianco cristallino e grigio sporco. Sotto l’immenso cielo desertico senza nuvole, Balcázar era finalmente libero di respirare.

In realtà, senza saperlo, Balcázar era entrato in un’altra zona di guerra. San Pedro, infatti, si trova nel punto più occidentale di una regione mineraria che si estende a nord fino in Bolivia, attraverso il deserto di Atacama, e a est in Argentina. Cinquanta volte più arida della Death valley in California, quest’area nasconde un mondo sotterraneo ricco di minerali. Per anni le aziende estrattive hanno sfruttato i suoi ricchi giacimenti di rame e, in misura minore, di iodio e nitrati. Ma la regione è anche ricca di litio: secondo alcune stime, metà delle riserve mondiali del minerale si trova nel suo sottosuolo. Tra l’inizio e la metà degli anni 2010, quando nelle città minerarie si è cominciato a parlare di batterie agli ioni di litio, c’è stata un’ondata di nuove licenze, che hanno portato a un rilancio degli investimenti e a un ampliamento degli impianti di estrazione. Da allora la zona è chiamata il “triangolo del litio”.

Il quadro è abbastanza sconfortante per chi si oppone alle miniere di litio in Portogallo

Le aziende estrattive giurano che le loro attività sono sostenibili. Ma secondo Balcázar, che attualmente si trova a Città del Messico per un dottorato di ricerca, non ci sono elementi concreti a sostegno di queste affermazioni, perché nessuno sa quali effetti avrà l’estrazione del litio sul fragile ecosistema dell’Atacama. A differenza di quanto accade in Portogallo, il litio nell’Atacama si estrae dalla salamoia, quindi le aziende minerarie non usano la dinamite e le ruspe con il rischio di lasciare orrendi crateri. Nelle saline l’attività estrattiva consiste in una serie di grandi vasche di evaporazione separate che vengono riempite con milioni di litri di salamoia pompati dal sottosuolo e lasciati evaporare al sole.

Le preoccupazioni dei residenti come Balcázar riguardano soprattutto le falde acquifere sotterranee della zona, da cui viene pompata la salamoia. Il timore è che le riserve di acqua potabile, che si trovano uno strato sopra i depositi di salamoia, vengano contaminate. Balcázar collabora con l’Osservatorio plurinazionale delle saline andine, un comitato di scienziati e cittadini che monitorano i cambiamenti dell’ecologia locale. I dati raccolti su una serie di fenomeni, dal restringimento dei pascoli ai mancati raccolti fino alla scomparsa della flora e della fauna, sono la spia di un processo di desertificazione che, a detta dell’organizzazione, è stato aggravato dall’estrazione del litio. L’impatto su un “sistema idrologico enorme e complesso” non è visibile da un giorno all’altro, dice Balcázar. “Ma le due cose sono collegate, non c’è alcun dubbio”.

Recentemente la Sqm, un’azienda mineraria, si è vista bloccare un progetto di espansione delle attività da un tribunale cileno per motivi ambientali, ma per il resto quasi ogni tentativo di ottenere il sostegno delle istituzioni è fallito. In Cile, osserva Balcázar, alcuni territori e ambienti naturali sono sempre stati “sacrificabili” in nome del progresso.

La via alternativa

Mentre le aziende minerarie setacciano i deserti e le campagne in giro per il mondo alla ricerca di litio concentrato, alcuni imprenditori stanno cercando un modo per produrre il litio destinato alle batterie senza attivare le scavatrici. In una zona industriale nelle campagne della Sassonia, Christian Hanisch è convinto che la soluzione sia nel riciclaggio. “E se anziché estrarre il litio vergine dal terreno usassimo quello che abbiamo già?”, spiega. Negli ultimi dieci anni è stato estratto e raffinato mezzo milione di tonnellate di litio, gran parte del quale si trova in telefoni cellulari e pc portatili in disuso e prossimi all’obsolescenza.

Nel suo modesto ufficio al primo piano della Duesenfeld, l’azienda che ha fondato mentre faceva il dottorato all’Università tecnica di Braunschweig, Hanisch, 37 anni, spiega che il problema principale è la logistica. Le batterie agli ioni di litio contenute nei dispositivi di uso quotidiano sono in genere piccole e poco pratiche, quindi per rendere sostenibile il suo modello d’impresa Hanisch ha deciso di partire in grande, dalle batterie delle auto elettriche usate, che contengono circa otto chili di litio riutilizzabile. Davanti alla fabbrica, accatastati sull’asfalto, ci sono una serie di campioni appena consegnati, grandi come materassi.

Rimuovere il pesante involucro di plastica della batteria è abbastanza facile; la difficoltà è estrarre il litio all’interno della cella. Allo stato attuale le possibilità sono due: riscaldare i componenti a circa 300 gradi per far evaporare il litio o usare acidi e altri agenti riducenti per lisciviarlo, estrarne cioè gli elementi solubili. Entrambe le soluzioni sono complicate dall’estrema volatilità del litio (che tende a esplodere) e dalla commistione con altri metalli (che vengono aggiunti per migliorare la conduttività).

Gli analisti stimano che il fatturato complessivo del settore del riciclaggio del litio a livello mondiale aumenterà di 12 volte nei prossimi dieci anni, superando i 18 miliardi di dollari entro il 2030 e, viste le previsioni di crescita, la concorrenza tra gli innovatori si fa sempre più serrata. Solo in Germania, la Duesenfeld deve fare i conti con almeno altre tre startup del riciclaggio. In Belgio, dall’altra parte del confine, un’ex fonderia riconvertita in impianto di riciclaggio dei rifiuti urbani, la Umicore, sta sviluppando una sua tecnologia, ma non ne ha rivelato i dettagli. Un’altra importante azienda a livello europeo è la francese Snam. Hanisch, tuttavia, è convinto che la sua procedura gli dia un vantaggio. Anziché la fusione (che è ad alta intensità energetica) o la lisciviazione (estremamente tossica), la Duesenfeld usa la separazione meccanica: la batteria viene fisicamente scomposta nelle sue singole parti e il litio residuo viene estratto attraverso una combinazione di magnetizzazione e distillazione.

Riciclaggio troppo costoso

Nell’impianto della Duesenfeld, in mezzo a una cacofonia di ronzii e rumori metallici, un aggeggio cilindrico simile a un sottomarino occupa la parete di fondo. “Quello là è il frantoio”, sento gridare Hanisch attraverso le cuffie protettive. A riempire lo spazio in mezzo c’è una giungla di tubi, imbuti, nastri trasportatori e piani di lavoro; non è chiaro dove cominci e dove finisca la linea di produzione. Hanisch guarda la sua creatura con un’espressione beata. “È rumoroso”, ammette, “ma è il modo più ecologico che ci sia di riciclare il litio”. Hanisch viene da una famiglia contadina della Bassa Sassonia rurale, un contesto che ha chiaramente influenzato le sue posizioni ambientaliste. All’inizio del 2020 ha fondato la No Canary, una società di consulenza specializzata in metodologie a basse emissioni di CO2 per la produzione di veicoli elettrici, dall’approvvigionamento dei materiali fino allo smaltimento finale. “Greta Thunberg ha ragione”, ha detto alla platea durante il suo webinar inaugurale. “Non ci stiamo muovendo abbastanza in fretta sulla decarbonizzazione”.

Dire addio alla benzina e al diesel, però, non sarà sufficiente. La produzione di qualsiasi auto, elettrica o no, genera emissioni di anidride carbonica, dal carbone usato per fondere l’acciaio per le carrozzerie al gasolio bruciato per spedire i componenti elettronici via mare. Lo sfruttamento di materiali ed energia necessario per produrre una batteria agli ioni di litio fa sì che, allo stato attuale, le emissioni legate alla produzione di un’auto elettrica siano superiori a quelle di un veicolo alimentato a benzina o diesel: fino al 38 per cento, secondo alcune stime. Finché l’elettricità distribuita dalle reti energetiche nazionali non proverrà esclusivamente da fonti rinnovabili, la ricarica delle batterie continuerà a dipendere dalle centrali a carbone o a gas.

Il litio rappresenta una piccola parte del costo della batteria, e quindi per i produttori ci sono meno incentivi a trovare alternative. A oggi, riciclare il litio costa di più che estrarlo dal terreno. Secondo Hanisch, il costo maggiore arriva alla fine del processo, quando bisogna trasformare il litio recuperato dal suo stato riciclato (solfato di litio) in una forma adatta all’uso nelle batterie (carbonato di litio). Poiché non ha le risorse necessarie per costruirsi un impianto chimico, la Duesenfeld invia il suo prodotto finale – un composto granuloso di metalli preziosi chiamato “massa nera” – a un impianto idrometallurgico per la lavorazione finale.

Per gli impianti di riciclaggio esistenti il litio non è particolarmente redditizio, dice Linda Gaines, esperta di sistemi di riciclaggio delle batterie all’Argonne national laboratory in Illinois, negli Stati Uniti. “L’obiettivo principale è recuperare il cobalto, oppure il nichel e il rame. Il litio non frutta granché”. Com’è già successo con le turbine eoliche e i pannelli solari, il prezzo del litio riciclato probabilmente scenderà man mano che i produttori di batterie cresceranno di dimensioni. Ma resterebbe ancora un enorme squilibrio tra domanda e offerta da colmare. Prima della pandemia si prevedeva che le vendite totali di veicoli elettrici sarebbero più che quadruplicate, superando gli undici milioni di unità nel 2025. La domanda di litio aumenterà di conseguenza: secondo alcuni calcoli il consumo annuale potrebbe facilmente raggiungere le 700mila tonnellate entro la metà di questo decennio. Quindi, anche se la Duesenfeld e i suoi concorrenti riuscissero a riciclare fino all’ultimo grammo di litio prodotto nell’ultimo decennio entro il 2025, la quantità recuperata basterebbe ad alimentare le nuove batterie dei veicoli elettrici per soli nove mesi. A conti fatti, la recessione provocata dalla pandemia potrebbe aver dato un po’ di respiro agli attivisti, facendo venire meno l’impellenza di aprire nuove miniere di litio. Il mondo si prepara ad affrontare una crisi prolungata, e le auto nuove, anche quelle ecologiche, non sono tra le priorità delle persone. Con il rallentamento della produzione, l’eccesso di offerta di litio sui mercati internazionali ha temporaneamente frenato il boom del petrolio bianco.

Gli investitori, tuttavia, restano ottimisti sulle prospettive a lungo termine. Con il cambio di regime alla Casa Bianca, si spera nel nuovo sostegno di Washington alle misure di contrasto alla crisi climatica. Non a caso, nelle due settimane successive alle elezioni negli Stati Uniti il titolo della società mineraria cilena Albermarle è cresciuto di oltre il 20 per cento. Nel Regno Unito l’annuncio di Boris Johnson che il blocco delle vendite di auto diesel e a benzina sarà anticipato al 2030 ha dato un nuovo impulso al mercato.

Anche la Commissione europea continua a puntare su una sua industria del litio. A settembre, il diplomatico slovacco e vicepresidente della commissione Maroš Šefčovič ha pubblicamente appoggiato i piani del Portogallo, definendoli “necessari” per il settore automobilistico e promettendo l’impegno della Banca europea per gli investimenti. La dichiarazione ha coinciso con il lancio di una nuova strategia dell’Unione sulle materie prime che ha, tra gli altri obiettivi, quello di aumentare l’offerta di litio in Europa di 18 volte entro il 2030, riducendo la dipendenza europea da paesi terzi.

Da sapere
I paesi produttori
Produzione di litio, milioni di tonnellate. (Fonte: S&P global market intelligence)

Il quadro, insomma, è abbastanza sconfortante per chi si oppone alle miniere di litio in Portogallo, anche se Šefčovič ha teso una mano agli attivisti. La decisione di partire con l’attività estrattiva, ha detto, dovrà essere presa dialogando “con le comunità locali” e convincendole che “questi progetti non solo sono della massima importanza, ma andranno a beneficio della regione e del paese”.

Il movimento della responsabilità sociale d’impresa degli ultimi anni si basa sulla stessa logica. Le aziende non s’impegnano a eliminare le conseguenze industriali negative, ma a “gestirle”, bilanciando eventuali danni con “benefici” compensativi, per usare le parole di Šefčovič. Nel caso della Savannah e della sua miniera nel nord del Portogallo, i vertici dell’azienda ammettono che ci sarà un impatto ambientale, ma assicurano che sarà bilanciato dai vantaggi (investimenti interni, posti di lavoro, progetti di comunità).

Godofredo Pereira, un architetto ambientale portoghese che lavora al Royal college of art di Londra, è scettico. Da quello che ha potuto osservare in prima persona sullo sfruttamento delle saline in Cile, le offerte di dialogo sono spesso di facciata. Perfino nell’Atacama, dove gli accordi internazionali prevedono il “consenso libero, preventivo e informato” delle comunità locali, gli oppositori come Balcázar hanno difficoltà a farsi ascoltare. Il punto di vista dei gruppi favorevoli all’estrazione, invece, è universalmente riconosciuto. In caso di necessità, l’obbligo del consenso può essere aggirato semplicemente attribuendo al litio un valore “strategico” o “critico” per l’interesse nazionale, un obiettivo abbastanza semplice, dato il contributo del minerale al rallentamento del riscaldamento globale e alla pulizia dell’aria.

Anche i vantaggi spesso non corrispondono alle promesse, dice Pereira. La natura volontaria della responsabilità sociale d’impresa permette alle aziende di fare marcia indietro ogni volta che lo ritengono opportuno. E anche quando le comunità locali riescono a negoziare una royalty fissa (il 3,5 per cento dei ricavi, nel caso di una grande azienda mineraria nell’Atacama), spesso poi litigano per la spartizione del bottino.

Ripensare i nostri spostamenti

Sventrare le montagne del Portogallo in nome della tecnologia verde non è ancora una soluzione ineluttabile. Magari irromperà sulla scena una tecnologia alternativa meno controversa: l’idrogeno verde, per esempio, sarebbe in grado di compensare fino al 10 per cento delle emissioni europee. Una soluzione più immediata sarebbe ripensare i nostri spostamenti. Come osserva Thea Riofrancos del Providence college, se tutti adottassimo “forme di trasporto razionali” come treni, tram, autobus elettrici, biciclette e car sharing, la domanda di veicoli di ogni tipo si ridurrebbe dall’oggi al domani.

Per gli attivisti portoghesi che si battono contro le miniere, però, il tempo stringe. Secondo Pererira i cittadini devono chiedere urgentemente un confronto per “avviare un dibattito su quale modello di sviluppo vogliamo”. Se la gente è meglio informata, osserva, magari appoggerà la loro causa e costringerà il governo ad abbandonare i suoi piani. Da questo punto di vista, la recente richiesta dei Verdi portoghesi di una valutazione dell’impatto nazionale della politica mineraria fa ben sperare. I contestatori sanno bene che bloccare la crescita verde non li porterà lontano. Le regioni interne hanno bisogno di investimenti. Uno striscione appeso al recinto del parco giochi del paese adiacente a quello di João Cassote recita “Sim à vida” (Sì alla vita) e “Não à mina” (No alla miniera). La “vita”, per chi si oppone alla miniera come Mario Inacio e Maria Carmo, significa ecoturismo, agricoltura rigenerativa, filiere locali e tutto ciò che riduce le emissioni. Per Cassote, invece, significa un salario dignitoso per una giornata di lavoro dignitosa. Per un futuro verde, sarà fondamentale tenere conto di entrambi i punti di vista. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati