Loujain al Hathloul è l’eroina della sua storia. Il 10 febbraio è stata rilasciata dal carcere, ma non è libera. Non può viaggiare e la sua pena è solo sospesa, quindi potrebbe tornare in prigione al primo capriccio del regime saudita. Il suo coraggio e il suo rifiuto di piegarsi sono stati tanto clamorosi da renderla scomoda alle autorità più dentro il carcere che fuori. Così l’hanno mandata a casa, dove il suo silenzio forzato sarà un sollievo per la monarchia.
La sua scarcerazione non è un “gesto di buona volontà” o una “concessione” del principe ereditario Mohammed bin Salman al nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Le donne non sono una pedina di scambio per ingraziarti il tuo più grande alleato, in modo che continui ad armarti fino ai denti e a far finta di niente mentre commetti crimini di guerra con quelle armi.
Il coraggio e la tenacia di Al Hathloul sono da tempo un intralcio per il regime saudita
Nel regno dell’apartheid di genere che è l’Arabia Saudita – dove una monarchia assoluta governa dal 1932 su un paese che prende il nome dal suo patriarca – Al Hathloul è stata processata e condannata da un tribunale specializzato in reati di terrorismo. Il regime saudita teme tanto il femminismo da considerarlo una forma di terrorismo.
Nel regno dell’apartheid di genere che è l’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (noto come Mbs) si è proclamato “riformista” ed “emancipatore delle donne”, ma nel maggio del 2018, appena qualche settimana prima di abolire il divieto di guida per le donne – l’unico esistente al mondo – aveva ordinato l’arresto di Al Hathloul e di altre femministe.
Perché arrestare proprio quelle attiviste che per anni si erano battute per eliminare il divieto di guida? Per mettere in chiaro che non era stata la loro coraggiosa campagna a portare all’abolizione, ma piuttosto la magnanimità di un principe ereditario impegnato in un feroce revisionismo. Permettere alle donne di celebrare quel momento come la vittoria del loro impegno avrebbe alimentato l’idea che nel regno dell’apartheid di genere l’attivismo funziona.
I despoti vogliono farci credere che la libertà è una concessione (loro), non una conquista (nostra). E di sicuro non vogliono che ci sfiori neanche per un momento l’idea che l’attivismo funziona.
Dodici donne restano sotto processo per il loro impegno a favore dei diritti umani. Quattro di loro sono ancora in carcere: Samar Badawi, Nassima al Sada, Nouf Abdulaziz e Mayaa al Zahrani. Le altre otto, anche se temporaneamente rilasciate, rischiano di essere condannate in base alla legislazione contro i crimini informatici. In carcere molte hanno subìto sofferenze fisiche e mentali, come torture, abusi sessuali e isolamento.
Il perno del patriarcato
Il coraggio e la tenacia di Loujain al Hathloul sono da tempo un intralcio per il regime saudita. Nel 2014, quando aveva 25 anni, Al Hathloul fu arrestata per la prima volta mentre cercava di attraversare alla guida di un’auto il confine dagli Emirati Arabi Uniti – dove aveva una regolare patente – all’Arabia Saudita. Passò 73 giorni in una struttura detentiva femminile e fu processata in un tribunale antiterrorismo. Le fu concessa una grazia reale subito dopo l’ascesa al trono del re Salman, padre di Mbs.
Nel marzo del 2018, quando Mbs era ormai il principe ereditario e il sovrano di fatto, la famiglia reale saudita considerava Al Hathloul una minaccia a tal punto da farla estradare dagli Emirati, dove studiava. È stata fermata da agenti della sicurezza mentre guidava su un’autostrada vicino all’università di Abu Dhabi e trasferita con la forza nel suo paese. Ha trascorso vari giorni in prigione, e le è stato vietato di usare i social network o di lasciare il paese, mentre Mbs partiva per un viaggio di tre settimane negli Stati Uniti. Il quell’occasione il principe ereditario ha concluso accordi per la vendita di armi con il presidente Donald Trump e ha incontrato varie celebrità, da Oprah Winfrey a Dwayne Johnson, da Jeff Bezos a Bill Gates.
I despoti si sentono minacciati a tal punto dal femminismo da chiedere ai loro alleati di estradare una femminista di 28 anni per assicurarsi il suo silenzio. L’estradizione di solito è associata a sospetti di “terrorismo”. Gli Stati Uniti sono stati grandi promotori delle extraordinary renditions (deportazioni extralegali) per spedire prigionieri in paesi alleati disposti a fare il lavoro sporco. Una forma di tortura usata contro i sospetti terroristi era il waterboarding. Ad Al Hathloul lo hanno fatto. Le torture e gli interrogatori erano diretti da Saud al Qahtani, un consigliere di Mbs. “La minacciava, dicendole che avrebbe potuto stuprarla e ucciderla, facendo sparire il suo corpo nelle fogne”, ha raccontato la sorella Lina al settimanale Time.
Nel 2019 l’adolescente saudita Rahaf al Qunun aveva appena ottenuto asilo in Canada dopo essere fuggita dalla sua famiglia, e Al Hathloul era ancora in carcere. In quello stesso anno l’“Autorità di contrasto all’estremismo” del regime saudita ha realizzato uno spot pubblicitario in cui le donne che fuggono dalla custodia maschile erano paragonate agli uomini che si uniscono al gruppo Stato islamico (Is) o ad altre milizie armate.
Il sistema di custodia maschile è stato a lungo usato per controllare quasi ogni aspetto della vita delle saudite. Un paio di anni fa alcuni aspetti di questo sistema sono stati aboliti. Ma in contemporanea l’opinionista di un noto quotidiano invocava la pena capitale per le femministe in quanto “corruttrici sulla Terra”. E un’università definiva il femminismo una “minaccia alla sicurezza nazionale, non meno pericolosa di Al Qaeda o dell’Is”.
Waterboarding. Elettroshock. Violenza sessuale. Minacce di stupro e omicidio. Per aver osato promuovere i diritti delle donne. Per aver osato chiedere la fine del sistema di custodia maschile, fondamento del patriarcato. Il femminismo è una minaccia esistenziale per i despoti, il cui potere è imperniato sul patriarcato. Questo è sempre stato il più grande pericolo rappresentato dalle femministe incarcerate per Mbs e per il regime saudita. Il loro lavoro coraggioso è sempre andato oltre l’abolizione del divieto di guida. Riguarda l’abolizione del sistema di custodia nel suo complesso: quell’incarnazione del patriarcato che tratta le donne come eterne minorenni che hanno bisogno del permesso di un padre, di un fratello o perfino di un figlio per viaggiare, studiare, sposarsi o accedere ai servizi pubblici. E il loro attivismo ha funzionato, perché nell’agosto del 2019 il regime ha cominciato a smantellare quel sistema.
Alcune restrizioni sono state eliminate, ma le saudite devono ancora ottenere l’approvazione di un tutore per sposarsi, lasciare il carcere o il tetto familiare. In Arabia Saudita manca ancora un codice che affianchi la legge islamica, che da decenni produce discrepanze nelle sentenze dei tribunali danneggiando soprattutto le donne. L’8 febbraio Mbs ha annunciato dei progetti che dovrebbero portare a un insieme di norme organico.
Mbs deve ancora rispondere dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre del 2018. Per alcuni c’è voluto l’omicidio di un uomo per prestare finalmente attenzione alle donne in Arabia Saudita e condannare il modo in cui il regime ripulisce la sua immagine con conferenze, concerti ed eventi sportivi comprati dalla famiglia reale.
Aprire una breccia
Io sono un’egiziana e da adolescente ho vissuto in Arabia Saudita, prima che Loujain al Hathloul nascesse. Spesso dico di essere diventata femminista perché sono stata traumatizzata da quel regno di apartheid. Come egiziana, oggi festeggio il decimo anniversario della caduta del dittatore Hosni Mubarak, cacciato dalla rivoluzione del 25 gennaio.
Le rivoluzioni in Tunisia, in Egitto e in altri paesi della regione hanno ispirato i manifestanti nella Provincia orientale saudita, ricca di petrolio e dove vive gran parte della comunità sciita del paese. Il rigido controllo del regime ha fatto in modo che non si parlasse di quella “rivolta nascosta”. Forse i manifestanti sono stati messi a tacere, ma la rivoluzione scatenata da femministe come Loujain al Hathloul ha aperto una breccia. A promuoverla non è un principe ereditario che rivendica di essere un emancipatore, e che è stato vergognosamente acclamato da molti mezzi d’informazione occidentali. Le vere leader sono le femministe che lui ha incarcerato e che ha messo a tacere per aver osato reclamare la libertà.
Che possano terrorizzarlo in eterno. Lunga vita alle femministe che non temono il patriarca. Lunga vita alle femministe che terrorizzano i despoti. Loujain, ti abbiamo ricordata e continueremo a innalzare il nome tuo e delle tue sorelle e compagne finché non sarete tutte libere. ◆ fdl
Mona Eltahawy è una giornalista, scrittrice e femminista egiziana. Feminist Giant è la sua newsletter.
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Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati