Sapete quante ore lavorava un operaio tedesco nel 1870? In media 67,6 a settimana, cioè più di nove ore al giorno, dal lunedì alla domenica. Nel 1870 non c’era la tv, non c’era internet e neanche la penicillina. L’automobile non era ancora stata inventata e nelle città la gente viveva in angusti appartamenti privi di elettricità e di acqua corrente.
Oggi un impiego a tempo pieno prevede in media 41 ore alla settimana. E, guarda un po’, abbiamo la tv, internet, la penicillina, l’elettricità, l’acqua corrente e più macchine di quante il pianeta sia in grado di sopportare. È un esempio di come la storia del progresso economico e sociale sia una storia di riduzione dell’orario di lavoro.
Eccoci dunque alla polemica sulla settimana lavorativa di quattro giorni. L’Ig Metall, il sindacato dei lavoratori metalmeccanici tedeschi, ha proposto di concordare questa riduzione dell’orario alla prossima tornata dei negoziati contrattuali. Ma l’idea ha ricevuto critiche, soprattutto da parte delle aziende, convinte che lavorare meno metterebbe a rischio il tenore di vita dei tedeschi.
Se così fosse, la vita nel 1870 avrebbe dovuto essere decisamente più confortevole di quella attuale, ma sappiamo che non lo era: all’epoca il pil pro capite, a parità di potere d’acquisto, era 2.370 euro all’anno, mentre oggi è almeno dieci volte più alto.
Se il benessere dipendesse solo dal numero di ore di lavoro, i cacciatori e raccoglitori dell’epoca preistorica sarebbero vissuti in un paradiso: al di là di qualche pausa per dormire, lavoravano praticamente giorno e notte. Ma l’inizio dello sviluppo economico come lo intendiamo oggi avvenne con l’invenzione dei primi utensili di pietra.
Non deve stupirci, visto che sono soprattutto le innovazioni tecnologiche a stimolare la crescita, o, per dirla con il vincitore del premio Nobel Paul Krugman, che la fonte della nostra ricchezza non è il sudore ma l’inventiva.
Lo sviluppo del capitalismo
Quindi è logico che la settimana lavorativa di quattro giorni debba essere il prossimo passo nello sviluppo del capitalismo, simile alla ristrutturazione dei sistemi produttivi avvenuta negli anni cinquanta del novecento, quando la settimana passò da sei a cinque giorni. Un altro insegnamento da trarre da questo e da altri tavoli negoziali è che l’orario di lavoro non cambia certo da solo. Storicamente, sono state le lotte sindacali oppure le leggi a imporre un aumento del tempo libero dei lavoratori. E anche oggi non basta limitarsi a fare appello alla buona volontà degli imprenditori. Un elemento di rilievo è che in questa fase si parla della settimana lavorativa di quattro giorni soprattutto in funzione della gestione della crisi dovuta alla pandemia: le imprese hanno meno commesse e di conseguenza anche i lavoratori devono lavorare meno, in modo da ridurre i licenziamenti. In teoria può funzionare, a patto però che gli stipendi diminuiscano in proporzione: in questo modo si ridistribuisce il carico di lavoro su un numero di lavoratori più ampio, come fece la Volkswagen durante la profonda crisi che attraversò negli anni novanta, salvando trentamila posti di lavoro.
Ma ridurre l’orario di lavoro e il salario può essere solo una soluzione temporanea, per evitare che durante la crisi le imprese sostengano un costo del lavoro maggiore. Quando l’economia tornerà a crescere, bisognerà poter lavorare meno a parità di salario: dal punto di vista economico, ridurre l’orario di lavoro senza ridurre anche i salari significa far partecipare gli occupati alla crescente produttività legata al progresso tecnologico. Questo non va a vantaggio solo dei lavoratori: il salario, infatti, non è solo un costo, ma consente anche che ci sia sufficiente potere d’acquisto perché la merce prodotta dalle aziende trovi compratori sul mercato.
Non è un caso che del tema si discuta proprio ora. Innovazioni come la digitalizzazione o l’automazione non sono altro che forme di progresso tecnologico. In più con la settimana lavorativa di quattro giorni si prenderebbero due piccioni con una fava: avremmo un argine contro i licenziamenti nella crisi e garantirebbe la partecipazione delle masse lavoratrici ai frutti dell’età delle macchine.
Il grande economista britannico John Maynard Keynes lo aveva colto già molti anni fa, quando nel 1930 spiegava perché secondo lui nel 2030 “una settimana lavorativa di 15 ore” sarebbe stata più che sufficiente a soddisfare i bisogni fondamentali delle persone. Di solito Keynes non sbagliava. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati