Iršansk, nella regione di Žytomyr, è un villaggio rurale di poche migliaia di abitanti. Lì vicino, in un paesaggio lunare, alcuni enormi cingolati che sembrano usciti da una versione sovietica del film Dune stanno scavando una buca che si allarga ogni giorno di più.

Il minerale di titanio grezzo era estratto proprio qui, a metà degli anni cinquanta del novecento. Dimenticati per decenni, oggi questi luoghi sono di nuovo al centro dell’attenzione internazionale. E potrebbero determinare un rinnovato impegno statunitense a favore di Kiev.

Già oggi in Ucraina si estraggono titanio, manganese e grafite, minerali che la Commissione europea considera materie prime critiche, cioè essenziali per lo sviluppo di settori come l’energia, la difesa, l’industria spaziale e digitale. La lista di queste risorse conta 34 elementi. Un elenco simile è stato fatto dagli Stati Uniti.

Attualmente il mercato delle materie prime critiche è dominato dalla Cina, che soddisfa circa il 60 per cento del fabbisogno europeo e statunitense. Per quanto riguarda i metalli delle terre rare, un sottogruppo di queste materie prime, la dipendenza dell’Unione europea dalla Cina è quasi totale. Questo suscita una preoccupazione crescente tra i politici occidentali. Perché se l’Europa e gli Stati Uniti vogliono resistere alla concorrenza, avranno bisogno di questi elementi. E se non troveranno nuove fonti di approvvigionamento, la Cina manterrà sull’occidente un netto vantaggio competitivo, economico e quindi politico.

Garanzie di sicurezza

L’Ucraina è consapevole dell’importanza delle sue materie prime critiche. Già prima che Donald Trump tornasse alla Casa Bianca, nel “Piano per la vittoria dell’Ucraina”, presentato dal presidente Volodymyr Zelenskyj nell’ottobre 2024, era prevista una forma di collaborazione con i partner occidentali per le attività estrattive. È stato in quei giorni che nelle redazioni dei giornali di tutto il mondo ha cominciato a circolare una mappa con le aree del territorio ucraino ricche di materie prime. Zelenskyj in persona la presentava alle delegazioni straniere in visita a Kiev, mentre l’agenzia geologica statale aveva preparato una brochure per attirare investimenti. Con il ritorno al potere di Trump, e della sua filosofia improntata sul “fare affari”, l’Ucraina ha deciso di mettere le sue risorse al servizio della politica. L’iniziativa è partita dall’ufficio del presidente e prevedeva che, in cambio di garanzie di sicurezza, gli Stati Uniti ottenessero una partecipazione nei giacimenti del paese.

Il piano sembrava ben congegnato: Trump avrebbe concluso un affare vantaggioso per gli Stati Uniti (a differenza del suo predecessore Joe Biden), mentre l’Ucraina avrebbe avuto Washington al suo fianco nei negoziati con la Russia, oltre a un rinnovato sostegno militare e garanzie di sicurezza.

Nessuna intesa

Durante i negoziati, però, gli statunitensi hanno cambiato le regole e la posta in gioco. Nella loro versione dell’accordo, le garanzie di sicurezza sono scomparse e i beni su cui mettere le mani sono diventati non solo le materie prime critiche, ma praticamente tutte le risorse ucraine, compresi petrolio e gas. Il risultato è che le parti non hanno trovato un’intesa. Alla fine di febbraio i due presidenti si sono scontrati nello studio ovale della Casa Bianca, a Washington e all’inizio di marzo gli Stati Uniti hanno sospeso l’invio di aiuti militari. Poi i contrasti sono rientrati e gli aiuti sono ripresi. Da allora Trump ripete che l’accordo sarà firmato presto, ma per ora sono solo parole. L’ultimo incontro si è tenuto l’11 aprile a Washington e si è chiuso con un nulla di fatto.

Nel frattempo, un’altra bozza dell’accordo, che la Casa Bianca considera definitiva, prevede che i profitti di tutti gli investimenti minerari siano divisi a metà, e che gli aiuti statunitensi all’Ucraina siano considerati alla stregua di prestiti da restituire. La società congiunta che gestirebbe gli investimenti pagherebbe le tasse negli Stati Uniti. Ma non è tutto. Secondo questa versione, gli Stati Uniti avrebbero il diritto di prelazione su ogni possibile investimento energetico o infrastrutturale in Ucraina. Volete costruire una raffineria o un terminale per il gas a Odessa, magari con la partecipazione dei polacchi? Va bene, ma prima mostrateci i piani: se è redditizio, non lo farete senza di noi.

È improbabile che l’Ucraina possa accettare un accordo simile. Dopo lo scontro con Trump, l’indice di gradimento di Zelenskyj in patria è aumentato sensibilmente, anche tra l’opposizione. Agli ucraini piace la sua assertività: se accettasse condizioni che tutti (anche in occidente) definiscono “predatorie e vessatorie” ne uscirebbe fortemente danneggia­to. E poi il parlamento ucraino non ratificherà mai un’intesa simile. Al momento il presidente potrebbe al massimo firmare un memorandum non vincolante.

Nel volantino dell’agenzia geologica ucraina si legge che il paese “possiede 22 delle cinquanta materie prime considerate critiche dagli Stati Uniti e 25 delle 34 individuate dall’Unione europea”, oltre ai più grandi giacimenti in Europa di grafite, titanio, litio, berillio e uranio. In totale, il suolo ucraino conterrebbe fino al 5 per cento dei giacimenti globali di materie prime critiche.

Il problema è che questi dati non sono stati verificati. Le informazioni risalgono spesso all’epoca sovietica e negli ultimi decenni sono state vagliate solo in minima parte. Nessuno ha controllato i nuovi giacimenti, soprattutto in termini di redditività estrattiva. Per non parlare del fatto che l’intera procedura di verifica richiede tempo e capitali stranieri.

Ma la sfida più grande consiste nell’eventuale passo successivo: la costruzione delle miniere. Tra la decisione di procedere e il raggiungimento della piena capacità produttiva passeranno almeno sette anni, durante i quali l’Ucraina dovrà avere la certezza che nessun razzo russo cada sui cantieri, forniture continue di energia e un clima di stabilità politica e giuridica. In poche parole, servono pace e riforme.

Secondo gli esperti ucraini, un’alternativa esiste: investire nelle miniere già esistenti, come quella di titanio a Iršansk. In questa struttura l’arrivo di nuovi capitali porterebbe a un aumento della produzione di titanio, ma soprattutto renderebbe possibile l’estrazione dello zirconio (essenziale per l’industria nucleare). Lo stesso vale per i giacimenti di grafite già attivi.

Tuttavia, queste raccomandazioni non riflettono l’interesse degli imprenditori. Per fare un esempio, l’azienda ucraina Umcc, proprietaria della miniera di Iršansk, è stata privatizzata nell’ottobre 2024. L’unica offerta d’acquisto, da cento milioni di dollari, è arrivata da un imprenditore azero che possiede già la rete mobile Vodafone Ukraine. Nessuna azienda europea o statunitense si è fatta avanti.

La questione delle materie prime critiche ucraine ricorda quello che successe in Polonia quando, nel 2011, si pensò che il paese potesse diventare il “Texas d’Europa” grazie al gas di scisto. Le condizioni geologiche, più complicate del previsto, vanificarono però i piani del governo. Per anni in Polonia l’argomento fu gonfiato da giornali e tv, esattamente come succede oggi con le risorse ucraine. Evidentemente c’è la convinzione che parlarne serva a convincere Trump che è un buon affare.

Stime approssimative

L’Ucraina è ricca non solo di materie prime critiche, comprese le terre rare, ma anche di idrocarburi. La posizione di massima dei giacimenti è nota, ma anche in questo caso servono ulteriori ricerche geologiche. Per ora le stime approssimative indicano che nel suolo ucraino ci sono risorse per il valore di 26mila miliardi di dollari, di cui dodicimila in materie prime critiche. Tra queste ci sono la grafite, con il 6 per cento dei depositi mondiali; il litio (1 per cento); il titanio (1 per cento); l’uranio (2 per cento). Esclusi il litio e la grafite, i cui giacimenti più grandi sono in Russia, si tratta della maggiori riserve in Europa. E poi ci sono terre rare, oro, nichel, rame, zinco, mercurio, cobalto e manganese. Circa il 50 per cento di queste ricchezze potrebbe trovarsi nei territori occupati dalla Russia.

Questi dati vanno però presi con cautela. Le divergenze nelle stime possono arrivare a decine di miliardi di dollari.

L’appetito di Trump per l’Ucraina, tuttavia, va oltre le risorse. Con le trattative sui minerali ancora in corso, gli statunitensi hanno messo sul tavolo un’altra proposta: l’acquisizione della proprietà delle centrali nucleari ucraine, il modo migliore per proteggerle, secondo Trump. La società statale Energoatom è il vero fiore all’occhiello dell’Ucraina: gestisce tre della quattro centrali del paese (esclusa quella di Zaporižžja, sotto occupazione russa dal marzo 2022), grazie alle quali gli ucraini hanno ancora l’energia elettrica.

L’Ucraina ha subito smentito le informazioni diffuse dal comunicato della Casa Bianca, secondo cui si sarebbe parlato di “centrali” (al plurale), specificando che l’unica struttura in ballo è quella di Zapo­rižžja. Un accordo mirato farebbe sicuramente comodo all’Ucraina, che non ha altro modo per rimettere le mani su quella che è la più grande centrale nucleare d’Europa. Gli statunitensi potrebbero riprenderne il controllo e poi riattivarla. In questo modo sarebbero coinvolti praticamente in prima linea.

Forse è proprio per questo motivo che l’intesa sembra esclusa. La Russia ha già detto che la centrale di Zaporižžja è sua. Con ogni probabilità gli statunitensi pretenderanno solo il controllo delle centrali funzionanti e redditizie.

Un piano perfetto

In tutto questo, l’obiettivo di Mosca rimane abbattere l’ordine internazionale basato sul rispetto della sovranità di tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro forza. Nel nuovo sistema a decidere sarebbero le grandi potenze e la forza bruta.

Prima del ritorno di Trump, la politica estera statunitense si basava sulla difesa di quest’ordine, e quindi sul contenimento della Russia. Bastava questo a giustificare il sostegno all’Ucraina. Ora contano gli affari: Washington deve sempre avere il maggior tornaconto possibile.

Per l’Ucraina le materie prime critiche potevano essere la soluzione ideale. La vaga prospettiva della loro estrazione in cambio di garanzie di sicurezza sembrava un piano perfetto. Ma gli statunitensi si sono rivelati troppo avidi. E ora Kiev è con le spalle al muro. Trump non ha scrupoli, e gli ucraini sono alla disperata ricerca di gioielli di famiglia da mettere in vendita.

Ma forse convincere Trump a sostenere ancora l’Ucraina potrebbe essere del tutto impossibile. La sua visione del mondo, dominato dalla legge del più forte, coincide con quella di Putin, e inoltre il Cremlino sembra avere una proposta per gli Stati Uniti forse perfino più allettante di quella ucraina. Per concludere l’affare basterebbe solo – una cosa da niente… – togliere le sanzioni a Mosca. ◆ ab

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Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati