Milo Rau aveva le idee chiare: impossibile tornare ad Avignone senza parlare di Gisèle Pelicot. Per il regista svizzero, un grande del teatro europeo, la città provenzale non è più solo l’antica sede del papato o la capitale internazionale delle arti sceniche. È anche il luogo dove lo scorso autunno sono stati giudicati gli abusi subiti per anni da Pelicot, drogata dal marito e consegnata a sconosciuti per essere violentata.

“Oggi, per molti, Avignone è soprattutto la città dove si è svolto quel processo”, ha detto Rau il 10 luglio, qualche giorno dopo l’inaugurazione del festival avvenuta il 5 luglio.

Il risultato è Le procès Pelicot, una ricostruzione scenica del processo basata sugli atti processuali e su articoli apparsi sulla stampa, dato che la registrazione delle udienze era vietata. Lo spettacolo debutta il 18 luglio con la partecipazione di attori famosi, ma anche degli avvocati che hanno seguito il caso, di collettivi femministi e della famiglia di Pelicot.

Per Rau il teatro non può limitarsi a documentare il crollo della civiltà, ma deve intervenire per impedirlo. Il regista partecipa al festival con due spettacoli, quello su Pelicot e uno itinerante, La lettre, ispirato ai classici e portato in scena in vari punti della periferia della città.

Rau paragona Avignone ai festival dell’antica Grecia. “Erano incontri politici più che occasioni di spettacolo”, dice. È convinto che eventi come quello di Avignone o le Festwochen di Vienna, che dirige dal 2023, aprano una parentesi nella vita comune: “Sono spazi dove il tempo sospeso permette di pensare, creare e discutere con intensità”. Rivendica un teatro “che non indottrini né escluda”, capace di attrarre sia il critico specializzato sia gli abitanti di un paesino governato dal Rassemblement national, come tanti nei dintorni di Avignone. “Cerco un teatro che includa tutti con un senso vero di esperienza condivisa, invece di costringere lo spettatore a partecipare a un gioco che non capisce”.

Esperienza condivisa

Sotto un cielo senza nuvole (Avignone vanta più di trecento giorni di sole all’anno) ogni luglio la città si trasforma in una macchina teatrale a pieno regime: 1.800 spettacoli, 180 teatri, tre milioni di biglietti in vendita in appena tre settimane. Il fiore all’occhiello resta il cosiddetto programma in: 42 spettacoli che sono il risultato di una selezione del meglio delle arti sceniche internazionali. Il festival, giunto alla sua settantanovesima edizione, rimane fedele allo spirito del suo fondatore, l’attore e regista Jean Vilar, che nel 1947 lo immaginò come una piattaforma popolare per portare il teatro a tutti nei giorni bui del dopoguerra.

Nôt (Christophe Raynaud de Lage, Festival d’Avignon)

Quest’anno, come di consueto, molti dei grandi titoli richiamano il contesto sociale e politico. Uno dei ritorni più attesi è stato quello di Thomas Ostermeier, assente dal festival da un decennio. Il direttore della prestigiosa Schaubühne di Berlino presenta una versione profondamente rivista dell’Anitra selvatica di Ibsen, riscritta per l’ottanta per cento e ambientata nell’Europa di oggi. Con questa sua rilettura (la settima di un’opera di Ibsen) voleva mettere in discussione l’auto­inganno liberista e l’idea della famiglia come ultimo rifugio. L’accoglienza, però, è stata tiepida: la sua proposta è ridondante, didattica e un po’ polverosa, priva della chiarezza politica e della forza scenica di molti suoi lavori precedenti.

Ad Avignone risuona anche la voce di Boualem Sansal. Lo scrittore franco-algerino, condannato nel suo paese a cinque anni di prigione per “attentato all’unità nazionale”, il 9 luglio è stato omaggiato con una lettura dei suoi testi. Inoltre, nel variegato programma off, c’è un adattamento del suo romanzo Il villaggio del tedesco. È la prima volta che un’opera di Sansal è rappresentata al festival.

“Avignone è un palcoscenico dove il futuro si reinventa senza sosta”, afferma il direttore del festival, il regista e drammaturgo portoghese Tiago Rodrigues. “In un mondo in cui gli autoritarismi seminano la guerra, minacciano le democrazie, negano l’urgenza climatica e oscurano ogni idea di futuro, approfittiamo di ogni istante condiviso per immaginare nuove strade”. Lo stesso Rodrigues contribuisce a questo orizzonte con La distance, un dialogo interplanetario tra padre e figlia che si svolge nel 2077. Lei è su Marte, lui è rimasto su una Terra in rovina. Il futuro, in questo festival, è nello spazio. Lo conferma anche l’applaudito Fusées, di Jeanne Candel, che ha come protagonisti due astronauti alla deriva.

Un tuffo nella notte

Rodrigues ammette di aver concepito questa edizione “in dialogo con l’attualità”. In tutto il programma si affrontano temi come la guerra in Medio Oriente – una trentina di artisti hanno firmato un intervento a favore di Gaza –, l’ascesa degli autoritarismi o la minaccia per la creazione artistica che l’estrema destra rappresenta in tutta Europa. Per Rodrigues, questa vocazione politica non è frutto di una congiuntura: fa parte del dna del teatro. “Non raccontiamo storie solo per sopravvivere, come Sheherazade nelle Mille e una notte. Le raccontiamo per vivere insieme e per imparare a farlo meglio”.

Il riferimento non è casuale. Il pezzo di apertura del festival, Nôt, della coreografa capoverdiana Marlene Monteiro Freitas, è un adattamento libero delle Mille e una notte, _un’immersione carnevalesca e allucinata nell’oscurità notturna, intesa come territorio simbolico dominato dalla follia collettiva dove tutto può succedere. “Nôt _è un tuffo nella notte, nel senso più ampio e metaforico del termine. Fa venire meno i nostri punti di riferimento, e realtà e finzione si confondono”, spiega Freitas. Provocatorio e a tratti un po’ irritante, lo spettacolo ha diviso il pubblico. Insomma, un ottimo inizio.

Richiamare le storie di Sheherazade quest’anno è qualcosa di più di un semplice riferimento letterario. Le ultime due edizioni del festival sono state dedicate all’inglese e allo spagnolo. Quest’anno la scelta è caduta sull’arabo. Una scelta sostenuta da molti artisti provenienti da paesi in cui si parla la lingua. Un gesto forte nella regione roccaforte dell’estrema destra.

Il sipario resterà aperto fino al 26 luglio e ci sono ancora diversi piatti forti in programma. Tra questi, un adattamento de La scarpina di raso di Paul Claudel, opera emblematica di otto ore, raramente proposta per intero. La Comédie-Française, sotto la direzione di Éric Ruf, la metterà in scena nel corso di una notte, dalle dieci di sera alle sei del mattino, quando i primi raggi di sole appariranno sulle mura del palazzo dei Papi. Una veglia più che uno spettacolo, per ricordarsi che ad Avignone il teatro può ancora essere un’esperienza totale. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati