Il dramma Nathan il saggio, uno dei testi più famosi dello scrittore e filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing, è ambientato a Gerusalemme durante la terza crociata. Il protagonista, Nathan, è un mercante ebreo che vive sotto il governo del sultano prendendosi cura di un’orfana cristiana. La sua famiglia – sua moglie e i suoi sette figli – è stata uccisa dai cristiani. In sua assenza la sua casa è stata bruciata. Eppure Nathan non prova risentimento né per i cristiani né per i musulmani. A un certo punto il sultano lo convoca e gli chiede quale delle tre religioni monoteiste – cristiana, ebraica e islamica – ritenga superiore. Nathan spiega che la risposta non dev’essere legata al passato, ma al futuro. Secondo Lessing, quindi, la verità di tutte le culture, se si può parlare di verità, si può ricostruire solo allargando la prospettiva, guardando avanti e cercando di capire quale cultura instilli la tolleranza nelle generazioni future.
Nathan stesso rifiuta di essere etichettato, ma c’è un tipo d’identità che non riesce a respingere: quella del migrante e più specificamente l’identità del migrante senza scelta, perché la migrazione è raramente un atto volontario. Un migrante è allo stesso tempo un cittadino del mondo e un cittadino senza patria, aperto al mondo ma anche alienato da esso. Dev’essere disposto ad assorbire abitudini che non gli sono naturali. Ma deve anche essere preparato a vivere in uno stato di ansia rispetto alla difficoltà di “appartenere” davvero a un luogo. Per il migrante l’appartenenza è solo un’aspirazione. Secondo Lessing questo aspetto incarna lo spirito cosmopolita dell’illuminismo. Eppure Nathan è un buon migrante: rispetta le leggi dei paesi che visita, è ricco e alla fine torna a casa, anche se troppo tardi.
Chi sostiene un sistema d’immigrazione più selettivo o la necessità di migranti qualificati in sostanza sta approvando una forma di sfruttamento
Dopo la fine della guerra fredda le migrazioni sono state una benedizione e una sciagura per molti paesi: una benedizione perché senza le rimesse dei migranti le loro famiglie non avrebbero retto l’impatto devastante della “terapia d’urto” delle riforme neoliberiste che promettevano di trasformare stati falliti in paradisi capitalisti; una sciagura perché, in fin dei conti, Lessing ha ragione quando ricorda che nessuno sceglie di essere un migrante. Diversamente da quanto vorrebbe far credere la propaganda anti-immigrazione, a nessuno piace mettere la propria vita in pericolo o lasciare il proprio paese solo per infastidire gli abitanti di un altro stato. Anche mettendo da parte i rischi degli spostamenti illegali e anche del percorso legale, la migrazione divide le famiglie e priva il paese d’origine di risorse fondamentali.
Ogni anno i paesi meno sviluppati investono risorse nella formazione di medici e infermieri, che però spesso decidono di andarsene. Chi sostiene un sistema d’immigrazione più selettivo o la necessità di migranti qualificati in sostanza sta approvando una forma di sfruttamento. I migranti lavoreranno e pagheranno le tasse finanziando le politiche sociali e il welfare del paese ospite: medici e infermieri immigrati cureranno i malati e insegnanti immigrati formeranno i bambini. Gli ospedali nei paesi d’origine, quindi, dovranno affrontare pesanti carenze per permettere agli ospedali dei paesi sviluppati di funzionare adeguatamente, e le loro scuole soffriranno per far prosperare il sistema formativo degli stati ricchi.
Dicono spesso che i confini sono un problema del nostro tempo. Forse è così, ma non perché alcuni gruppi abbiano più difficoltà a integrarsi rispetto ad altri. E sicuramente non perché, come ha dichiarato recentemente Giorgia Meloni davanti a Donald Trump, lo scopo dell’Europa è quello di “far tornare grande l’occidente” e la migrazione è un ostacolo a questo obiettivo.
Per Nathan non c’è niente di più offensivo dell’idea che esista un’unica civiltà meritevole. Non è tale nemmeno quella europea, e questo dev’essere il punto di partenza di qualsiasi discorso sulla migrazione. Non possiamo continuare a distinguere tra migranti buoni e cattivi, migranti che meritano la nostra ospitalità e migranti che vanno espulsi.
I valori che l’Europa sbandiera valgono poco se si applicano solo a una minoranza. Al contrario, per avere senso devono essere radicati in un impegno più ampio per la giustizia sociale
Tra l’altro, se analizziamo il contributo dei migranti, troveremo poche prove del fatto che rappresentino un peso in termini assoluti. Contrastano il declino demografico, finanziano il sistema previdenziale e contribuiscono alle società che li ospitano. Questo vale anche per gli irregolari, in caso si proceda a una regolarizzazione. Naturalmente, se i visti fossero facili da ottenere, gli irregolari non esisterebbero. Eppure la migrazione è ancora trattata come un problema nel discorso politico. Ma il problema, appunto, è politico, non culturale. La questione dell’immigrazione non ha alcun legame con i migranti in sé, ma deriva dalla crisi della democrazia liberale, una crisi che i migranti non hanno provocato e che non alimentano. Anzi, è il contrario. Il problema è l’egemonia della destra sul discorso migratorio e l’incapacità di andare oltre la propaganda.
Ormai da tempo le società liberali si rivelano inefficienti. Il problema è che abbiamo scelto un modello in cui la ricerca del profitto subordina i rapporti tra esseri umani agli imperativi del mercato.
Una comunità politica che attribuisce la colpa dei propri fallimenti a persone che non ne fanno parte – che non possono o che non sono considerate meritevoli di farne parte – non ha bisogno di assumersi le proprie responsabilità: può puntare il dito contro i più vulnerabili e fingere di avere le soluzioni da offrire una volta che “l’altro” non è più una minaccia. Ma la migrazione non è la causa del problema, piuttosto il sintomo di una crisi. I confini sono sempre stati (e saranno sempre) aperti per alcuni e chiusi per altri. È chiaro osservando due fenomeni recenti.
Il primo riguarda i più poveri. Anche tralasciando i piani di deportare in paesi terzi i migranti che non hanno diritto all’asilo, violando il diritto internazionale, oggi il percorso che porta all’acquisizione della cittadinanza non è più lineare, nemmeno per quelli regolari. Dal reddito minimo necessario ai requisiti per ottenere la residenza e ai test d’integrazione linguistica, alcune misure apparentemente innocue possono trasformarsi in barriere che condannano i nuovi arrivati a uno status permanente di cittadini di seconda classe. A questo livello la migrazione è una guerra contro i più vulnerabili.
Il secondo fenomeno coinvolge invece i ricchi, per i quali i confini sono più aperti che mai. Nelle stesse settimane in cui la Casa Bianca pubblicava i filmati degli immigrati irregolari caricati in catene sugli aerei destinati alla deportazione, Donald Trump annunciava il suo piano di vendere la residenza e la cittadinanza statunitensi a persone disposte a pagare cinque milioni di dollari per una green card “oro”.
Non è un caso isolato. In tutto il mondo gli investitori, gli imprenditori del settore immobiliare e gli individui pronti a pagare una grossa cifra in cambio di un nuovo passaporto seguono un percorso facilitato verso la naturalizzazione. Ma quando la cittadinanza diventa una merce da acquistare, vendere e scambiare, la democrazia degenera in una forma di oligarchia che permette alle élite di controllare il potere. Se la cittadinanza viene venduta, da strumento di emancipazione diventa strumento di oppressione.
Come possiamo creare un’alternativa praticabile? Prima di tutto dobbiamo rifiutarci di giocare a questo gioco malsano. La democrazia non può diventare un club per pochi e il conflitto politico va considerato una cosa naturale. Dobbiamo inserire il tema della migrazione nel contesto più ampio delle ingiustizie create dal declino dello stato sociale e dell’impunità di cui godono i datori di lavoro ossessionati dal profitto che mettono i poveri uno contro l’altro. Abbiamo bisogno di un dibattito sulle cause delle guerre in tutto il mondo e su come contribuiscono a creare flussi migratori asimmetrici. In poche parole dobbiamo aprire una discussione sul fatto che la crisi della socialdemocrazia non dipende dall’esplosione di conflitti culturali, ma da anni di politiche sociali ed economiche destinate a rafforzare il capitalismo.
Il problema non è l’esistenza dei confini. Il problema è che le esclusioni – sia all’interno di uno stato sia tra stati diversi – si alimentano a vicenda e servono a consolidare un ordine economico sempre più incontrastato. L’atto di vendere la cittadinanza ai ricchi e limitare l’accesso di chi ha meno risorse dice molto sul rapporto tra il capitalismo e il presunto stato democratico. Se non cambieremo il modo di valutare questa relazione entreremo in un circolo vizioso che colpirà prima i migranti irregolari, poi i residenti senza cittadinanza e poi i cittadini che hanno la sfortuna di chiamarsi Mohammed e Adballah, esattamente come succedeva in passato a chi aveva la sfortuna di chiamarsi Goldschmidt o Levi. La posizione cosmopolita incarnata da Nathan il saggio non dovrebbe però essere confusa con lo slancio altruista o con l’etica umanitaria che spesso sono invocati per difendere i diritti dei migranti. L’illuminismo fu un progetto politico e non solo morale, con il suo rifiuto di istituzioni che non rappresentano ogni essere umano e la critica delle idee che favoriscono un determinato gruppo etnico, religioso o razziale sugli altri, o una comunità politica sulle altre. L’abbandono dello spirito illuminista in un momento in cui è più necessario che mai è un fenomeno tragico, ma non casuale. L’obbedienza richiede ignoranza e l’ignoranza favorisce l’obbedienza. Ci stiamo sempre più abituando a non pensare, limitandoci a seguire le tendenze del momento.
I valori che l’Europa sbandiera valgono poco se si applicano solo a una minoranza. Al contrario, per avere senso devono essere radicati in un impegno più ampio per la giustizia sociale e per un futuro che rifiuti ogni nostalgia del passato, ogni illusione di superiorità di una civiltà sulle altre e qualsiasi compromesso sugli ideali di uguaglianza. La migrazione è al centro di questa battaglia. Non è nella promessa di far tornare grande l’occidente che vengono messi alla prova i valori europei, ma nell’impegno a difendere la libertà, l’uguaglianza e un mondo in cui nessuno sia costretto a lasciare la propria casa. ◆ as
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 45. Compra questo numero | Abbonati