Lo scenario peggiore potrebbe già essere realtà. Almeno così la pensa la Thermoplan, un’azienda che produce macchine da caffè per la catena statunitense Starbucks, e sta già valutando il trasferimento della produzione destinata al mercato statunitense da Weggis, nel cantone di Lucerna, a Hockenheim, nel land tedesco della Renania-Palatinato. Altre aziende potrebbero seguire l’esempio: quasi un’impresa svizzera su tre nel settore della meccanica e dell’elettronica sta pensando di spostarsi nell’Unione europea (Ue). “Siamo in una fase delicata”, ammette l’associazione di settore Swissmem. “Molti vorrebbero produrre di meno in Svizzera” e il 37 per cento delle imprese potrebbe tagliare posti di lavoro. Ma non finisce qui: i produttori lattiero caseari riuniti nell’associazione Bo Milch chiedono finanziamenti milionari per sostenere le esportazioni di panna, burro e cioccolato.
Il motivo di questo pessimismo? Dal 7 agosto sono entrati in vigore dazi del 39 per cento su molti prodotti svizzeri esportati negli Stati Uniti. Peggio di così Donald Trump ha trattato solo alcuni paesi a lui particolarmente invisi, come il Brasile e la Birmania. Dato che vari prodotti dell’Ue sono soggetti a dazi del 15 per cento, tante imprese svizzere stanno pensando seriamente di spostarsi nei paesi vicini.
Trump spinge la Svizzera nelle braccia degli europei? Forse è quanto ha sperato il cancelliere cristianodemocratico tedesco Friedrich Merz il 29 agosto, durante la visita a Berlino della presidente della Confederazione elvetica Karin Keller-Sutter. Il 31 luglio Keller-Sutter aveva avuto quella che i mezzi d’informazione hanno definito una catastrofica telefonata di 34 minuti con Trump. Subito dopo era arrivata la “mazzata” dei dazi: il presidente non aveva gradito la sua determinazione. “Non voleva ascoltare”, ha dichiarato Trump, indispettito per i 38 miliardi di dollari di deficit commerciale degli Stati Uniti con la Svizzera.
Dopo l’incontro con Keller-Sutter, Merz si è detto dispiaciuto per i “dazi esorbitanti” imposti alla Svizzera. La presidente ha fatto riferimento a un possibile nuovo accordo con Washington: forse Berna è pronta a comprare da Washington più armi e gas naturale liquefatto, a rinunciare all’introduzione della tassa sui servizi digitali e ad aprire un po’ di più il mercato agricolo elvetico ai prodotti statunitensi. Perciò, anche se Merz ha definito “positivo” e Keller-Sutter “cordiale” il colloquio di agosto, i rapporti restano incrinati, almeno da quando gli svizzeri, appellandosi alla loro neutralità, hanno rifiutato aiuti all’Ucraina.
Valori comuni
Così l’incontro si è concluso senza risultati concreti. Merz ha auspicato una “cooperazione il più stretta possibile”, ma ha chiarito che un’eventuale adesione all’Ue non era in discussione. Ha anche sostenuto Ginevra come possibile sede per i futuri colloqui di pace sull’Ucraina. A unire la Svizzera e l’Ue non sono solo le regioni di confine e gli spesso citati “valori comuni”. L’Unione è di gran lunga il principale partner commerciale della Confederazione. Nel 2024 il valore totale degli scambi ha raggiunto i 346,9 miliardi di euro. Con gli Stati Uniti è stato di 94,6 miliardi. Allo stesso tempo, però, il 18 per cento delle esportazioni svizzere va oltreoceano, soprattutto in forma di prodotti chimici, farmaceutici, oro, metalli preziosi, arte e antiquariato.
Berna e Bruxelles stanno già pensando a una cooperazione più stretta. L’anno scorso sono state discusse regole comuni in materia di sicurezza alimentare, mercati energetici e sanità. Anche sul piano giuridico la Svizzera si sta avvicinando all’Ue, con un’estensione dei diritti di libera circolazione, in particolare per lavoratori e imprese. L’accordo però non è ancora stato ratificato. Probabilmente dovrà prima essere approvato dai cittadini svizzeri con un referendum nella prima metà del 2027. Vari imprenditori conservatori hanno già cominciato a fare campagna contro l’accordo e ora i liberali temono una replica del referendum del 2001, quando gli svizzeri furono chiamati a pronunciarsi sul “sì all’Europa”. Il risultato fu netto: il 76,8 per cento disse di no. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 99. Compra questo numero | Abbonati