Settimane prima della data prevista per il parto, alcune donne si ritrovano a guardare attonite il loro bambino attraverso un vetro, un corpicino coperto di sensori e tubi che lotta per vivere. Una nascita pretermine può causare problemi seri. Anche se il tasso di sopravvivenza dei bambini nati prima della 37a settimana di gravidanza continua a migliorare, rimane significativamente più basso di quello dei bambini nati dopo, e le probabilità di complicazioni per la salute nel lungo periodo sono maggiori.

Perciò qualsiasi farmaco in grado di ridurre questo rischio sarebbe accolto con entusiasmo. Così è stato. Nel 2011 la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ha autorizzato la vendita di un medicinale chiamato Makena sulla base di un test clinico circoscritto dal quale era emerso che il farmaco aiutava a prevenire i parti prematuri. In seguito studi più ampi hanno scoperto che non era così. Un ospedale ha perfino riscontrato un tasso più alto di diabete gestazionale tra le donne che prendevano il farmaco. Nel novembre del 2019 un altro test ha dimostrato che il Makena non era meglio del placebo, e una commissione dell’Fda ne ha raccomandato il ritiro dal mercato.

Il Makena non è un caso isolato. In molti paesi del mondo le agenzie che vigilano sui farmaci permettono sempre più spesso la commercializzazione di medicine dopo verifiche limitate. I farmaci sono approvati sulla base di risultati preliminari, o autorizzati per un particolare uso per poi essere prescritti per un altro. Viene da porsi una domanda inquietante: queste agenzie lavorano per proteggere le persone o per fare gli interessi delle case farmaceutiche? Ci piacerebbe pensare che qualsiasi cura ci proponga il nostro medico sia quella migliore, una scelta basata su prove solide. Ma alcuni farmaci approvati non solo sono inefficaci: a volte prenderli è peggio che non fare nulla.

Le decisioni dell’Fda o dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), che concordano in più del 91 per cento dei casi, hanno ramificazioni internazionali. Per esempio, l’Fda ha annunciato di recente un’iniziativa in collaborazione con il Canada e l’Australia per accelerare l’approvazione simultanea di farmaci antitumorali. Ma anche quando non c’è una collaborazione diretta, le decisioni dell’Fda hanno un effetto a cascata: il metodo statunitense è considerato un modello in tutto il mondo e i medicinali che ottengono un’approvazione rapida negli Stati Uniti o in Europa finiscono per riceverla anche in altri paesi.

La rapidità non è stata sempre una priorità per queste agenzie. Alla fine degli anni settanta l’Fda impiegava in media 35 mesi per approvare un farmaco. Oggi ci mette meno di un anno. Alcune misure per accelerare il processo sono state introdotte a partire dai primi anni novanta, in parte per rispondere alle esigenze delle persone affette da malattie potenzialmente mortali o invalidanti. Sono state create nuove procedure per consentire un accesso più rapido a farmaci che promettevano di curare malattie gravi per le quali non esisteva ancora una terapia o che promettevano una “svolta” nel modo di trattare quelle malattie.

Oggi molti farmaci immessi in gran fretta sul mercato non rispondono a obiettivi tanto virtuosi: nel 2008 l’Fda concesse l’approvazione accelerata al bimatoprost, che favoriva la crescita delle ciglia.

“Questa modalità sta diventando la norma”, spiega Caleb Alexander della Johns Hopkins university nel Maryland. Oggi più della metà dei farmaci autorizzati dall’Fda ha subìto un processo di verifica accelerato.

L’Fda sostiene che “gli standard di verifica sono gli stessi”, ma alcuni ricercatori contestano quest’affermazione. “Per approvare un farmaco si accontentano di meno test”, dice Jonathan Darrow della Harvard medical school. “Rispetto a vent’anni fa è meno probabile che i test siano randomizzati, in cieco o che includano gruppi di controllo con placebo, mentre è probabile che il campione sia più ridotto”. Barbara Mintzes, dell’università di Sydney, concorda: “Nelle approvazioni accelerate si tende ad abbassare l’asticella”. L’approvazione rapida dei farmaci è diventata più comune anche in Europa. Dal 2006 l’Ema può concedere “un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata” a farmaci per malattie gravi o rare, o che possono risolvere un’emergenza di sanità pubblica pur non avendo ancora dato prove sufficienti della loro efficacia.

Questo abbassamento degli standard di verifica prevede l’uso di marcatori surrogati: invece di verificare se un farmaco può prevenire un infarto, per esempio, una casa farmaceutica può semplicemente dimostrare che abbassa la pressione sanguigna. “Questi risultati, però, non ci dicono se una persona vivrà più a lungo o se avrà una migliore qualità della vita”, osserva Joel Lexchin, dell’università di Toronto.

Vivere più a lungo

Spesso sono nuovi farmaci simili ad altri già esistenti, che curano le stesse malattie, a essere approvati sulla base di marcatori surrogati, dice Adam Cifu della facoltà di medicina dell’università di Chicago. Tra questi ci sono alcuni dei farmaci più usati, come le statine, prescritte per abbassare il colesterolo. “Prendiamo l’atorvastatina, la pravastatina e la simvastatina: sono diverse tra loro”, dice Cifu. “Ma non abbiamo studi comparativi, né singoli test controllati con placebo da confrontare tra loro, quindi non è chiaro quale sia la migliore”.

È il caso anche di molti nuovi farmaci antitumorali, che sono la maggior parte di quelli approvati con la procedura accelerata. Le terapie oncologiche spesso hanno effetti collaterali debilitanti, perciò sapere se avranno davvero l’effetto di allungare la vita è fondamentale per decidere se affrontarle.

Tra il 2009 e il 2013 l’Ema ha approvato, sia per la via normale sia per quella accelerata, 48 farmaci antitumorali per 68 usi diversi. Al momento dell’approvazione era stato dimostrato che i farmaci aumentavano le possibilità di sopravvivenza solo in un terzo di quegli usi, e solo nel 10 per cento sembravano migliorare la qualità della vita. Anche dopo essere rimasti sul mercato dai tre agli otto anni non era stato ancora dimostrato se questi medicinali allungassero la vita o ne migliorassero la qualità per metà degli usi approvati.

Allo stesso modo molti antitumorali approvati dall’Fda non presentano benefici evidenti. Tra il 1992 e il 2017, dice Mintzes, “solo 19 di 83 nuovi farmaci hanno dimostrato di poter allungare la vita”.

Dan Saelinger, trunk

L’Afinitor è un farmaco usato per il trattamento di tumori metastatici al seno. Fu approvato dall’Fda nel 2012 sulla base di un marcatore surrogato – che limitava la crescita del tumore – ma da allora non ha dimostrato di prolungare la vita. “È molto costoso, ha gravi effetti collaterali e non fa vivere più a lungo”, sostiene Vinay Prasad, un oncologo dell’Oregon health and science university. “Eppure è ancora sul mercato sia negli Stati Uniti sia nell’Unione europea”.

Quando un farmaco è autorizzato sulla base di prove limitate, a volte si dà per scontato che continuerà a essere testato anche dopo che ha ricevuto il via libera, com’è successo con il Makena. Ma le sperimentazioni cliniche possono durare anni e spesso sono di scarsa qualità. In alcuni casi, non vengono mai effettuate. Circa la metà degli studi richiesti dall’Fda a cinque anni dall’immissione in commercio non sono stati completati.

Inoltre è più probabile scoprire gravi effetti collaterali nei farmaci approvati sulla base di marcatori surrogati, dice Mary Olson della Tulane university di New Orleans: “Le medicine che vengono approvate rapidamente sono quelle che tendono a comportare rischi maggiori, a volte perfino mortali. Per la velocità si rinuncia alla sicurezza, e l’Fda fatica a trovare il giusto equilibrio”.

Quando si devono lanciare gravi avvertimenti e in ultima istanza ritirare certi farmaci dal mercato, è evidente che alcuni medicinali “non avrebbero mai dovuto essere approvati”, dice Christopher Robertson dell’università dell’Arizona.

Alternative pericolose

Una volta che i farmaci finiscono in commercio è difficile ritirarli. Quando sono stati resi noti gli ultimi dati sul Makena, l’American college of obstetricians and gynecologists, che ha più di 58mila iscritti, ha fatto sapere che l’avrebbe ancora consigliato. In parte la logica è che avere qualcosa da offrire è meglio di niente. Nella commissione dell’Fda che ha raccomandato il ritiro del Makena, sette persone su sedici hanno votato contro. Tra loro c’è Jonathan Davis, pediatra del Tufts medical center del Massachusetts. Secondo lui il Makena dovrebbe rimanere in commercio mentre si conducono ulteriori test, perché il rischio è che i medici cerchino alternative potenzialmente più pericolose.

Il medico dovrebbe essere in grado di dirci quanto è nuovo un farmaco, cosa si sa dei rischi che comporta e se è migliore dei precedenti

In alcuni casi i farmaci che i medici prescrivono sono semplicemente la loro ipotesi migliore. Una volta che sono stati approvati per un uso specifico, i medicinali possono essere prescritti _off-label _(“fuori etichetta”, al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti di sorveglianza) per altri usi. Ufficialmente il Makena è pensato per le donne che hanno già avuto un parto prematuro spontaneo. “Ma i medici lo prescrivono anche per altri fattori di rischio”, dice Amy Romano, un’ostetrica e ricercatrice nel campo dell’assistenza alle gestanti di Milford, nel Connecticut. “Anche se gli studi non hanno dimostrato che funzioni, lo prescrivono lo stesso perché vogliono fare qualcosa piuttosto che nulla”.

Le prescrizioni _off-label _possono essere utili, aggiunge Cifu, come nel caso della pillola anticoncezionale che è usata per curare l’acne. Solo una è stata approvata anche per questa indicazione, ma ne esistono altre dalla composizione chimica simile e i medici sanno per esperienza che hanno effetti simili. “Prescriverne un’altra è perfettamente sensato”, dice.

Ma nell’80 per cento dei casi gli usi off-label _non sono supportati da prove perché le aziende farmaceutiche non sono tenute a condurre test clinici per quegli utilizzi. “Si può continuare a usare un farmaco _off-label per anni senza sapere veramente se è sicuro ed efficace”, dice Robertson.

Le prescrizioni di questo tipo possono servire alle aziende che producono i cosiddetti farmaci orfani, destinati alla cura delle malattie rare (negli Stati Uniti sono quelle che colpiscono meno di 200mila persone, in Europa sono quelle patologie con meno di cinque casi su diecimila persone). Negli Stati Uniti, in Europa e in Australia i farmaci orfani sono approvati rapidamente e per le aziende sono previste delle agevolazioni. Nel 2018, dei 59 medicinali autorizzati dall’Fda 34 erano farmaci orfani. Dopo l’approvazione, di solito ai produttori è concesso il diritto esclusivo di commercializzare i nuovi farmaci per molti anni. Nel caso dei farmaci orfani il periodo può essere prolungato, consentendo alle aziende di mantenere alti i prezzi più a lungo. Il Makena è stato definito un farmaco orfano e all’inizio era venduto a 1.500 dollari a dose, o a 30mila per l’intera gravidanza.

Una volta in commercio, queste medicine possono essere prescritte per malattie più comuni. “Alcuni hanno fruttato decine di miliardi di dollari e sono tutto tranne che orfani”, dice Alexander.

Il cerotto alla lidocaina Lidoderm fu approvato come farmaco orfano dall’Fda nel 1999 per trattare la nevralgia causata dal fuoco di sant’Antonio, che all’epoca colpiva 191mila statunitensi. Da allora è ampiamente prescritto per altri tipi di dolori. Nel 2005, nell’82 per cento dei casi il Lidoderm era prescritto per usi non approvati dall’Fda. “Quando un prodotto finisce in commercio, è difficile controllare come viene usato”, dice Lexchin. “I medicinali circolano e la gente li usa per malattie per le quali non servono”.

“Si è creata una strana situazione per cui non ci sono praticamente regole sull’uso off-label dei farmaci, ma i rimborsi del sistema sanitario che ne derivano sono una fonte di profitti importante per le aziende”, dice Robertson.

Per le case farmaceutiche è illegale promuovere medicinali come cura di malattie per cui non sono stati ufficialmente approvati. Ma al momento “non è affatto chiaro” se l’Fda può intervenire quando i loro rappresentanti agiscono così, dice Robertson.

Si riferisce a un caso giudiziario del 2012. Nel 2005 Alfred Caronia, rappresentante dell’azienda produttrice dello Xyrem, un farmaco ufficialmente approvato per la narcolessia, fu registrato mentre diceva che lo Xyrem poteva essere usato anche da chi soffriva di insonnia e fibromialgia, che si stava indagando se poteva essere usato per la malattia di Parkinson e la sclerosi multipla, e che poteva essere somministrato ai bambini. Coronia finì sotto processo con l’accusa di aver “cercato di vendere un farmaco pericoloso per usi non autorizzati dall’Fda”. Nel 2009 fu giudicato colpevole di aver fornito informazioni ingannevoli e condannato a un anno di libertà vigilata e a cento ore di servizi socialmente utili. Ma lui ricorse in appello sostenendo che aveva solo esercitato il suo diritto alla libertà di parola. Nel 2012 la corte d’appello ribaltò la sentenza, decretando che “se quello che diceva era vero, aveva il diritto costituzionale di dirlo”, ricorda Robertson. Per i giudici non aveva importanza se le sue affermazioni non erano supportate da prove convincenti. Robertson è convinto che oggi l’Fda non sarebbe più disposta ad affrontare cause come quella contro Caronia perché, se una arrivasse alla corte suprema e l’agenzia perdesse, non potrebbe più regolamentare in modo efficace i farmaci e i dispositivi medici. Dopo il caso Caronia, il numero di lettere di avvertimento inviate dall’Fda alle aziende farmaceutiche sembra sia diminuito. Resta comunque il fatto che le prescrizioni off-label possono essere pericolose. Per esempio, possono causare reazioni avverse o allergiche.

Nell’interesse di chi?

Per molte persone tutti questi elementi messi insieme diventano fonte di preoccupazione: l’Fda attribuisce più importanza agli interessi delle case farmaceutiche o a quelli dei cittadini?

È vero che l’agenzia riceve sempre più finanziamenti dalle industrie. Il Prescription drug user fee act fu approvato per la prima volta nel 1992, e prevedeva che le case farmaceutiche versassero una quota all’agenzia per pagare gli stipendi del personale e, in cambio, l’Fda si impegnava ad accelerare i tempi d’approvazione. All’epoca l’agenzia incassava circa 36 milioni di dollari all’anno dalle aziende, racconta Darrow. Da quel momento in poi i contributi sono stati rinnovati e incrementati. “Oggi ammontano a circa 1,5 miliardi di dollari all’anno”, dice. E coprono il 45 per cento del bilancio annuale. Nel caso dell’Ema rappresentano l’89 per cento dei 330 milioni di euro di budget annuale. “Siamo un po’ preoccupati per la qualità delle verifiche e per la tendenza dell’Fda a considerare l’industria farmaceutica il suo cliente principale”, osserva Darrow.

Abbiamo contattato entrambe le agenzie per chiedere se non pensano che la dipendenza economica dalle aziende sia in conflitto con i loro obiettivi. L’Ema non ha risposto, mentre un rappresentante dell’Fda ha scritto che i contributi delle aziende servono “ad assumere ulteriore personale e ad aggiornare i sistemi informatici”.

I finanziamenti non sono l’unico modo in cui l’industria può influenzare l’Fda. Le aziende possono remunerare i rappresentanti dell’agenzia per le loro consulenze esterne o coprirgli le spese di viaggio e di alloggio, evitandogli di dover denunciare un conflitto d’interessi.

Da sapere
Rapidità di approvazione
Percentuale di nuovi farmaci approvati negli Stati Uniti con procedura rapida. (Fonti: Food and drug administration, New England Journal of Medicine)

Una volta che i farmaci sono stati approvati, si può influire sul modo in cui sono promossi o prescritti con ulteriori finanziamenti, anche su scala ridotta. Secondo uno studio del 2018 i dottori che ricevono benefit dalle aziende produttrici di oppioidi li prescrivono con più facilità, anche se il premio è solo un pasto da 13 dollari.

Nel 2010, con l’entrata in vigore del Physician payments sunshine act, negli Stati Uniti è diventato obbligatorio per i produttori di farmaci e dispositivi sanitari denunciare ogni contributo economico superiore ai dieci dollari fatti ai medici. Secondo i dati disponibili, due dei medici che hanno votato per mantenere il Makena sul mercato a un certo punto avevano ricevuto un contributo economico dal produttore. Per uno di loro si trattava di appena 17 dollari. Può sembrare una sciocchezza, ma quei soldi danno al rappresentante la possibilità di convincere un dottore “con un discorsetto in privato”, dice Romano. “Non lo farebbero se non funzionasse”.

Nelle intenzioni dei legislatori, questo tipo di rivelazioni permette ai cittadini di verificare se esistono rapporti economici tra i medici e le aziende. Lo scorso settembre, da un’inchiesta del New York Times e ProPublica è emerso che José Baselga, all’epoca direttore sanitario dello stimatissimo Memorial Sloan Kettering cancer center di New York, “ha valutato positivamente i risultati di due test clinici sponsorizzati dalla Roche che molti altri avevano giudicato deludenti”, senza rivelare di aver ricevuto più di tre milioni di dollari dall’azienda nei tre anni precedenti. Quando la notizia è apparsa sui giornali, Baselga si è scusato e dimesso, ma nel giro di pochi mesi ha ottenuto un posto di prestigio all’AstraZeneca, una casa farmaceutica britannica. “Non è una grande punizione se poi ottieni un lavoro molto ben remunerato”, dice Prasad.

Qualcosa sta cambiando

Il primo passo per risolvere questi problemi è farli venire alla luce, e un numero sempre più grande di medici, ricercatori, avvocati e politici sta cercando di farlo. Prasad, per esempio, sta scrivendo un libro in cui denuncia le lacune del sistema d’approvazione e prescrizione dei farmaci antitumorali. Darrow ha pubblicato saggi in cui esamina tutti i modi in cui i farmaci arrivano sul mercato negli Stati Uniti e in altri paesi. Aaron Kesselheim di Harvard ha testimoniato più volte davanti al congresso statunitense per attirare l’attenzione sui problemi legati alla produzione dei farmaci, all’approvazione e al modo in cui si stabiliscono i prezzi.

Da sapere
Il percorso di un farmaco

◆ Per essere venduto in Italia un medicinale deve aver ottenuto l’autorizzazione dell’Agenzia italiana del farmaco o della Commissione europea, che si appoggia alla European medicines agency (Ema). I test clinici prevedono tre fasi. Nella prima si somministra il farmaco a un numero limitato di volontari sani per valutarne la sicurezza e tollerabilità. Nella seconda fase, che dura un paio d’anni, si testa la capacità del medicinale di produrre gli effetti desiderati su un gruppo di volontari che hanno la malattia per cui il farmaco è stato pensato. La terza fase coinvolge centinaia, se non migliaia, di soggetti e serve a determinare quanto è efficace il farmaco, se dà benefici in più rispetto a farmaci già in commercio e qual è il rapporto tra rischi e benefici. L’Ema prevede un’autorizzazione rapida all’immissione in commercio: il medicinale è approvato sulla base di dati clinici meno completi rispetto a quanto normalmente richiesto se è destinato a un bisogno medico non soddisfatto, a una malattia gravemente invalidante, a una malattia rara o all’uso in situazioni di emergenza. Aifa, Ema


Ma i cambiamenti sono lenti. La maggior parte dei medici e dei ricercatori che abbiamo contattato non critica gli enti regolatori per i test limitati su molti nuovi farmaci. Secondo loro, organizzazioni come l’Fda cercano di trovare un equilibrio tra la necessità di prove scientifiche e le pressioni delle organizzazioni di medici e pazienti (alcune di queste, a dire il vero, sono finanziate dalle case farmaceutiche).

Inoltre i tentativi più diretti di cambiare le cose sono falliti. Nel 2005 una commissione del parlamento britannico raccomandò alla Medicines and healthcare products regulatory agency di collaborare con l’industria per ideare test in grado di stabilire se un farmaco poteva davvero migliorare la qualità della vita di una persona. Consigliò anche di stabilire un limite alla quantità di materiale promozionale che i medici ricevevano sui nuovi farmaci. Ma il governo decise di lasciare le cose come stavano, affermando che non era dimostrato che le misure in atto fossero inefficaci.

La posta in gioco è alta. “Stiamo perdendo la possibilità di curare i pazienti perché le medicine non sono valutate e prescritte correttamente”, dice Lexchin. Anche Robertson concorda. “Finiremo per sapere sempre meno sulle sostanze chimiche che assumiamo quando siamo più vulnerabili e più disperatamente alla ricerca di soluzioni, e questo è veramente preoccupante”, dice.

È per questo che loro e le altre persone che criticano questi metodi non smetteranno di lanciare l’allarme. Intanto, la lista delle cose da fare per migliorare la situazione diventa ogni giorno più lunga. Secondo Lexchin organismi come l’Fda e l’Ema dovrebbero essere economicamente indipendenti. “La regolamentazione dovrebbe essere finanziata dal denaro pubblico, non dalle aziende”, dice.

Huseyin Naci della London school of economics afferma che “ogni volta che è possibile, i farmaci dovrebbero essere valutati sulla base della loro capacità di allungare la vita”. Mintzes è d’accordo. Le procedure d’approvazione abbreviate fanno risparmiare in media undici mesi. “Non è poi tanto”, dice Naci. “Se la raccolta di dati prima dell’approvazione durasse più a lungo, le persone che vogliono provare il farmaco prima potrebbero farlo partecipando ai test clinici o attraverso programmi di cura compassionevole”.

Quando un farmaco è stato approvato senza la certezza che funzioni, dovrebbe essere riportato sulla confezione, dice Darrow: “I pazienti sopravvalutano i nuovi farmaci. Quello che serve veramente è uno specchietto riassuntivo dei dati, come quello dei valori nutritivi di un prodotto alimentare, scritto in modo che i pazienti possano capirlo”.

Un’idea che sta riscuotendo un certo successo è quella di ritirare automaticamente dal mercato i farmaci che entro un certo numero di anni non sono riusciti a dimostrare di prolungare la vita. La maggior parte delle persone che abbiamo contattato ne ha sentito parlare ai convegni, ma non c’è ancora un’iniziativa coerente per promuoverla.

Mentre i sostenitori delle riforme continuano a insistere perché s’introducano cambiamenti significativi, ci sono cose che tutti possiamo fare per essere sicuri di avere le migliori medicine possibili. Per cominciare bisogna svolgere un ruolo attivo e soppesare i rischi e i benefici di una nuova cura. Se un medico ci consiglia un farmaco, dobbiamo fargli delle domande, dice Robertson. Chiedere se è stato approvato per la nostra specifica patologia e chiedere quali sono le prove che ne consentono l’uso.

Il nostro medico dovrebbe anche essere in grado di dirci quanto è nuovo un farmaco, quanto si sa dei rischi che comporta e se è migliore di quelli precedenti. Può sembrare chiedere troppo a un medico che ha poco tempo o non riesce a stare al passo con le nuove ricerche. Ma quando si tratta della nostra salute, è l’unico modo per essere sicuri di prendere il farmaco migliore per noi.

“Sono passati i tempi in cui un dottore diceva: ‘Deve prendere questo medicinale’”, conclude Prasad. “Ora deve dirci: ‘Sediamoci e parliamo di questa medicina, di quest’altra, o della possibilità di non fare nulla’”. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati